sabato 6 marzo 2021

MANGIARE COI LIBRI

 Quando per mezzo litro d’olio si vendevano volumi rari...

Mi è rimasta impressa nella mente in modo indelebile una frase pronunziata alcuni anni fa dall’allora ministro del Tesoro Giulio Tremonti: “Con la cultura non si mangia!”.

L’illustre quanto supponente politico di destra dimenticava allora che il suo stesso mentore, Silvio Berlusconi, “mangiava” anche con quell’ampia fetta dell’editoria italiana da lui controllata che certo con la cultura, anche a dispetto del padrone, qualcosa aveva che fare!

Ma a proposito dell’importanza dei libri, si può dire anche qualcosa di molto concreto.

Sfogliando vecchi giornali che qualcuno crede possano servire, una volta letti, soltanto a pulire i vetri o ad avvolgervi il pesce, si scoprono notizie che ancora oggi possono far meditare.

Ed ecco che in un ritaglio del “Giornale d’Italia” del 30 aprile 1957, nel quale, purtroppo, non risulta la firma, scopriamo un articolo che testimonia come, paradossalmente, proprio i libri possano sostenere non solo, come molti sostengono, la nobile mente, ma anche il prosaico corpo.

Il pezzo in questione si riferisce al periodo, allora ancora abbastanza vicino, dell’occupazione tedesca, quando, a dire del giornalista, si vendettero tantissimi libri usati non solo dai librai, ma anche dai privati.

Prima, com’è noto, chi vendeva libri usati era lo studente dopo gli esami felicemente superati, oppure chi, avendo ereditato da uno zio canonico o notaio centinaia di volumi, non sapeva che farsene.

Ma nel periodo sopra detto si verificò un fatto straordinario, perché si potevano spesso vedere giornalmente signori seri, noti scrittori, pro­fessionisti, critici d'arte e persino com­mendatori, prima abituati a spendere con gioia in libri una parte dei loro guadagni, entrare nelle li­brerie con un pacco di libri sotto il braccio ed uscirne poi con un’aria falsamen­te disinvolta senza quel pacco.

Che era successo?

Quando i Tedeschi occuparono Roma, molti intellettuali si ritrovarono in strettezze economiche e per fronteggiarle, in attesa della liberazione della città, dopo aver venduto oggetti quali mobili, tappeti e argenteria, si accorsero che era venuta l’ora dei libri. Certo, si cominciò con quelli che si amavano meno e che non si sarebbero più riletti; ma poi si passò alle edizio­ni di lusso, a quelle numera­te, ai libri preziosi di arte, di let­teratura, di teatro, di storia, ad altri libri stampati nel Seicen­to e nel Settecento, alle rarità bi­bliografiche di Lipsia, di No­rimberga, di Amsterdam, di Venezia, a qualche ghiotta rac­colta illustrata da artisti famo­si.

Il distacco avvenne con una stretta al cuore, sopportata solo grazie alla conversione in contanti che i librai, in generale, davano volentieri, dopo qualche contrattazione, perché rivendevano me­glio. Ma il denaro serviva a sbarcare il lunario e non ba­stava mai, sebbene la borsa nera non avesse raggiunto un grado di sapiente perfezione e i prezzi non fossero saliti alle vertiginose altezze successive.

Il bisogno trapelava dagli an­nunci economici dei giornali, nei quali, alla lettera L, si leg­geva ogni tanto: “Libri. Cambierei volumi di arte, di sto­ria, dì letteratura con generi alimentari”; oppure “Privato offre a privato libri in cambio di vettovaglie”.

Insomma, chi si decide­va a un passo così grave non nascondeva con graziose perifrasi e con bugiardi eufe­mismi le condizioni in cui ver­sava, ma le confessava candida­mente e se la sua coscienza di bibliofilo gli avesse rimpro­verato come una colpa l'an­nuncio economico, egli avreb­be magari risposto col noto aforisma:

Primum vivere, deinde philosophari”!

Il giornalista autore di quest’articolo che ho cercato di riassumere scrive di ricordarsi di una visita ri­cevuta in quel tempo da una sua cara amica:

Si era appe­na seduta e non mi aveva ancora domandato come sta­vo, quando cominciò a fissare una libreria che le stava di fronte, dove erano allineati certi libri dalla copertina ver­de; come per indovinare da lontano i titoli di ciascuno. Supposi che ne volesse uno in prestito; e fui sorpreso al­lorché mi chiese se avevo le “Grotte Vaticane” di Gide. Come mai - dissi fra me - proprio Gide? Questa si­gnora non è di quelle che seguono le mode intellettuali e leggono libri pericolosi. Miste­ro. Le risposi che non avevo nulla di Gide ed ella, con un sorriso contrariato, che mi di­mostrò ancora una volta la sua buona amicizia: “Peccato. C'è un signore che ha tutta la collezione, ma gli manca Gide. Avrebbe dato, per aver­lo, mezzo litro d'olio”. L'olio costava, anche allora, ottocen­to lire al litro. Per me sareb­be stato un affare”.

Qualcuno potrebbe inorridire, apprendendo che un libro di Gide fu paragonato a mezzo litro d'olio; e forse qualche altro non prenderà la cosa sul tra­gico, e passando in rassegna un certo gruppo di scrittori, si domanderà con maligna cu­riosità, a chi meglio conven­gano i legumi, il lardo, le mar­mellate, e se per caso non vi sia anche qualche scrittore, autore di molti volumi, che possa aspirare ad una salu­meria!

Dei libri, almeno di certi libri, si è sempre detto che sono il nutrimento dello spirito; ed è senz’altro vero. Ma la guerra dimostrò paradossalmente, come si vede, che i libri possono sostenere anche il corpo, perché gli scrittori venduti in quelle tristi occasioni alleviarono molte pene, porta­rono il pane su qualche men­sa, ricambiarono la simpatia di coloro che avevano comprato e letto le loro pubblicazioni!

Chissà se verrà mai un giorno in cui qualcuno, ricordando le miserie atroci della guerra o di qualche altro cataclisma, dirà ai suoi figli: “Se non avessimo avuto allora l’Opera omnia di D'Annunzio, saremmo morti di fame”; oppure: “Fummo salvati dall'Enciclopedia Treccani”!

Conclude testualmente il nostro giornalista:

Certo è che quella fu l’età dell'oro dei libri usati. Li compravano pri­ma di tutto altri studiosi o semplici collezionisti che ave­vano denaro da spendere, poi certi nuovi ricchi che preve­devano la svalutazione della lira, infine i tedeschi. Vi erano molti professori che si ripromettevano, appena tornati a casa, di con­tinuare a servire nella pace la cultura, non come l'avevano servita nella guerra, brucian­do biblioteche ed università. Quando gli Alleati giunsero a Roma, il commercio dei libri già declinava, ma chi posse­deva il fiuto del bibliofilo poté ancora acquistare libri di va­lore che forse altrove non avrebbe trovato. Ora, tranne i librai, nessu­no vende più nessun libro”.

Ma, da parte nostra, concludiamo smentendo quest’ultima affermazione, perché basta frequentare i mercatini per vederne tanti di libri! Essi sono il risultato di svuotamenti da parte degli eredi di case private alla morte dei proprietari che i libri amavano; o semplici eliminazioni, per pura e semplice mancanza di spazio.

Chi è un assiduo frequentatore di questi luoghi, però, sa bene che può comunque trovarvi qualche perla smarrita, a causa della fretta, da un ignorante.


Felice Irrera




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