domenica 13 settembre 2015

Senza retorica. Breve storia del problema degli immigrati.

A lungo andare noi occidentali dovremo fare i conti col nostro passato

 

Migranti, clandestini, rifugiati: non si parla d’altro nei giornali, nei telegiornali, nei mille talk-show che popolano la nostra vita. Ed è ormai da diversi anni che, con qualche pausa riservata alle “egregie opere” di Berlusconi, Monti o Renzi, è così. Inizialmente, i barconi provenienti dalla Libia carichi di questa povera gente, arrivavano più o meno vicini a Lampedusa; poi c’è stata la missione umanitaria dell’Italia che andava a raccoglierli, man mano che i barconi stessi diventavano sempre più fatiscenti, al largo delle coste libiche; più tardi l’aiuto, ma solo quello delle navi, non dell’accoglienza in Paesi diversi dal nostro, di altre navi europee. Era il massimo cui l’Europa dei banchieri, trincerata dietro l’accordo di Dublino che stabiliva come l’accoglienza spettasse al Paese dove essi approdavano, voleva dare, aggiungendovi magari un po’ di milioni di euro per i campi d’accoglienza da allestire, naturalmente, in Italia.

 Ed ecco venir fuori, allora, il genio dei nostri governanti e dei malavitosi di casa nostra, spesso in combutta con i primi: mentre gli uni facevano in modo, con una blanda sorveglianza ai campi e un’identificazione (prevista dai trattati europei) che tardava per mesi, di permettere ai migranti di fuggire verso Paesi più ricchi del nostro e dove quindi le possibilità di lavoro erano maggiori, eliminando così il problema di mantenerli; gli altri s’insinuavano nella gestione dei campi stessi, garantendosi lauti guadagni con la connivenza dei primi (Mineo è solo il caso più eclatante, come dimostrano le stesse intercettazioni di “Mafia Capitale”, dove i malavitosi affermano che l’accoglienza-migranti è ormai l’affare più lucroso).

A questo punto, l’Europa improvvisamente si sveglia. Perché? Solo in quanto si apre un’altra strada da parte dei trafficanti di uomini, data la difficoltà di trovare sempre nuovi barconi e l’endemica guerra in Libia: quella dei Balcani, dove una folla di disperati pone in crisi interi Paesi. Mentre alcuni di questi innalzano muri o in ogni modo pongono ostacoli all’accoglienza (Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia) e altri rifiutano, comunque, le quote di accoglienza finalmente proposte da Bruxelles (Regno Unito e Danimarca), la teutonica Merkel si guadagna il consenso del mondo (rimasto intanto completamente inerte nella persona dell’inutile Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon) con l’astuta mossa di aprire l’accoglienza a centinaia di migliaia di persone, soprattutto siriani, più istruiti e che quindi, una volta inseriti e germanizzati, renderanno il Paese sempre più potente ed egemone in Europa! E ci sono pure gli Stati Uniti, disposti ad accogliere i Siriani, mentre alla frontiera messicana si spara sui disgraziati che tentano di entrare nel paese di Bengodi.
Da notare che il criterio dell’accoglienza resta, in ogni caso, sempre quello della provenienza da Paesi in guerra. Ma quali sono questi Paesi? Solo la Siria, l’Afghanistan e l’Iraq, dove gli occidentali hanno commesso errori madornali, destabilizzando tutta l’area? E quelli dell’Africa nera, che attraversano il deserto libico per fuggire, oltre che dalle endemiche guerriglie, dallo sfruttamento delle multinazionali che li ha affamati? No. Chi cerca di migliorare le proprie condizioni e di garantire un futuro a sé e ai propri figli non ha diritto e deve essere rimandato lì da dove è partito dopo aver lautamente pagato i trafficanti! L’Europa dimentica così il suo colonialismo di secoli e quindi le proprie responsabilità in questa situazione.
La divisione tra migranti a causa di guerre e migranti a causa di fame appare davvero assurda, se si vogliono davvero fare i conti con la storia. Ma crediamo che, a lungo andare, sarà quest’ultima a fare i conti con noi occidentali, il cui tenore di vita deriva anche dallo sfruttamento al quale per secoli i popoli africani sono stati sottoposti. Le colpe dei padri ricadono sui figli? Certamente: dai tempi del peccato originale.

Felice Irrera

venerdì 4 settembre 2015

La città delle "cricche"

Chiedere al potere
di riformare il potere ..
Che ingenuità!”
(G. BRUNO)

 Occorrerebbe davvero una “cricca” senza scrupoli per governare questa città ormai in piena balia degli elementi. “Nave senza nocchiero in gran tempesta” è senza più ombra di dubbio - e agli occhi di tutti - quella che fu la “civitas locupletissima” di Cicerone. Tendopoli abusive, buonismo a (buon) mercato, dichiarazioni e proclami di una classe politica alla deriva, ecco il panorama che s’affaccia dalla gran falce di Crono alla sommità dei rilievi peloritani. Ai due antipodi le rispettive Madonnine, dal porto e dal santuario di Dinnamare, sembrano guardarsi desolate - l’una immagine speculare dell’altra - senza tuttavia perdere la speranza, almeno per chi come il sottoscritto ci crede, nell’infinita misericordia del Redentore.
Una cricca occorrerebbe, e munita degli attrezzi del mestiere – intelligenza, autorevolezza, passione – destinati finalmente a soppiantare gli altri, di attrezzi – astuzia, autoritarismo, sfruttamento sistematico del territorio - che hanno letteralmente demolito a picconate la città risorta dalle rovine del Grande Sisma. Un rovesciamento di forma mentis in tal senso opererebbe per il ripristino non solo dei valori della legalità e del civismo, ma anche e soprattutto per la rivoluzione dell’aspetto fisico della città. Una città brutta, infatti, ispira disgusto e mancata cultura d’appartenenza; rifondarla dal punto di vista urbanistico recuperando, nel solco della memoria, i simboli vivi ed essenziali – il porto antico, gli spazi fieristici, i villaggi tanto per fare un esempio – significa esaltarne l’identità per troppo tempo sopita sotto le sabbie mobili dell’apatia.
Un’apatia per la quale non può funzionare la storiella-alibi dello scirocco che fiacca le volontà e deprime l’umore, utile soltanto a distribuire deleghe in bianco a una classe politica e dirigenziale di chiaro stampo delinquenziale. Chi delinque ai danni di Messina, beninteso, lo fa ai danni dei suoi abitanti. La classe elettrice è dunque responsabile, parimenti a quella degli eletti, del naufragio materiale, oltre che etico, d’una comunità che annaspa ormai alla ricerca di un refolo d’aria che le consenta di respirare sott’acqua. Commissioni ed omissioni s’addensano e confondono sullo sfondo dello Stretto che rese Messina porto franco e centro degli scambi mediterranei per secoli.
Benvenute allora, cricche di cittadini che avete il coraggio di aprire gli occhi sulla scena del crimine, liberate le vostre menti dalle pastoie dell’acquiescenza e dell’utilitarismo, riprendetevi la vostra città. Non abbiate timore delle chiacchiere di quanti vi assicurano che, tanto, nulla può cambiare. L’irredimibilità d’ogni popolo, specie di quello siciliano, nasce da comportamenti consolidati, paura delle critiche, noia del nuovo.
Ma la Sicilia, nel corso dei millenni, è rimasta pur sempre salda sulle proprie fondamenta e Messina, da parte sua, poggia ancora solidamente sulle robuste spalle di Colapesce. 

Giuseppe Ruggeri 

mercoledì 2 settembre 2015

MATTEO L’APOSTOLO ED ALTRI OMONIMI

San Matteo, apostolo ed evangelista, fu chiamato da Gesù ad essere uno dei dodici apostoli Era esattore delle tasse, un mestiere non certo amato (allora come ora) dal popolo: forse proprio per questo il Salvatore lo chiamò a sé.
 
Oggi ci sono due politici di nome Matteo che spopolano sul web e sui giornali: Matteo Renzi, il salvatore d’Italia, e Matteo Salvini, il castigatore dei migranti.
Anche loro, come l’apostolo non sono molto amati.
Il primo, oltre a snocciolare annunci cui non seguono fatti e fanfaronate ad ogni passo, comunica twittando, con ciò dimentico che la maggior parte del popolo italiano, soprattutto di una certa età, non sa nemmeno che cosa è il web (eppure, gli anziani votano; ma forse il presidente del Consiglio non li reputa importanti). Il suo “decisionismo”, poi, è diventato addirittura leggendario: se convoca le parti sociali su qualche problema, li ascolta per poi congedarli e stabilire ciò che già aveva risoluto di fare! Tipico il caso del decreto sulla cosiddetta “buona scuola”, che davvero tale non è, prevedendo una vera e propria “deportazione” di insegnanti precari (che il buon Matteo è stato costretto a immettere in ruolo da una sentenza della Corte di Giustizia europea) dalle loro famiglie, dai propri figli e, cosa ancora più grave per un cattolico professante come lui, senza dare la minima chance di poter rimanere vicino casa a coloro che assistono familiari disabili!

Ed eccoci a Matteo Salvini, colui che specula sui peggiori istinti dell’uomo, uno dei quali è certamente la paura del diverso, riuscendo così a conseguire i migliori risultati elettorali, ma facendo un pessimo servizio all’Uomo italiano, sì quello con la U maiuscola. Le sue magliette, con scritte che sarebbero da definire goliardiche se non fossero pericolose per una pacifica convivenza tra persone di etnie diverse, sono ormai oggetto di collezionismo sul web, dove anche lui come Renzi twitta continuamente proponendo, per risolvere il problema dei migranti, ricette da brivido (ricordate i cannoneggiamenti?), o che non tengono conto del contesto internazionale, come la proposta di non farli partire istituendo dei punti di raccolta in nord-Africa. Che bravo, Salvini! Chissà se qualche suo ascendente, immigrato poi in Svizzera o in Argentina, sarebbe stato contento di essere “attendato” sine die sulle rive del Po! Vero è che, in realtà, i vari governi italiani all’epoca succedutisi erano ben contenti di far emigrare gli Italiani, così come i governi dei Paesi africani da cui oggi provengono i migranti si sbarazzano volentieri di bocche da sfamare che testimoniano, come un tempo fu per i governi italiani incapaci di risolvere la questione meridionale, della loro inettitudine e corruzione.

Chissà che il Giubileo straordinario indetto da papa Francesco non faccia cambiare atteggiamento a questi due Matteo, inducendo, almeno, l’uno, a un minor numero di smargiassate, l’altro a pensare meno all’elettorato leghista e più ai problemi reali del Paese.
Così forse Gesù potrebbe prendersi anche loro.

Felice Irrera


martedì 1 settembre 2015

La lezione di Zveteremich. Studioso e maestro

Nel luglio di quest'anno è stato inaugurato a Messina un busto allo slavista Pietro Zveteremich e gli sono state dedicate iniziative culturali e artistiche. Riproponiamo questo articolo apparso nel primo numero de "La Cricca", scritto in occasione del ventesimo anniversario della morte

Geniale, poliedrico, antiaccademico, all'occasione beffardo, ironico... Questi sono alcuni degli aggettivi con cui è stato definito uno dei più grandi slavisti italiani di sempre, Pietro Antonio Zveteremich. Che proprio a Messina ha svolto tutta la sua attività di docenza universitaria. Sono trascorsi venti anni esatti da quando se n'è andato, nel sonno, la notte del 3 ottobre del 1992.

Zveteremich è entrato nella storia della slavistica per la traduzione, prima al mondo, de Il Dottor Zivago e per il ruolo svolto nella decisione della Feltrinelli di pubblicare quest'opera, nonostante le fortissime pressioni politiche in senso contrario. Ma non solo, Zveteremich all'inizio degli anni '70 si rese autore di una beffa editoriale che ha dell'incredibile: scrisse e pubblicò un romanzo scandalo, Le notti di Mosca, sotto pseudonimo, spacciandosi per uno scrittore russo del samizdat. Ci fu grande “rumore”, ma nessuno si accorse dell'inganno. Fu lo stesso Zveteremich, venti anni dopo, in una nuova edizione in italiano del romanzo a rivelare i retroscena dell'operazione

Zveteremich fu grandissimo ed infaticabile traduttore dei classici e di opere fondamentali del Novecento russo, ma anche storico sopraffino: il suo lungo saggio Il grande Parvus ha gettato nuova luce sulla rivoluzione bolscevica ed ancora oggi è un testo imprescindibile per chi voglia capire come Lenin riuscì ad arrivare al potere.

Ma tutte queste competenze non costituirono vanto nella sua attività di docenza, che si svolse a Messina nel silenzio e nell'operosità, volta solo a dare il meglio di sé agli studenti. Io fui fra quelli. Per lo più avevamo un'idea molto vaga di suoi meriti editoriali, ma riconoscevamo in lui un maestro insuperabile di letteratura; rimanevamo incantati dalle sue lezioni, per l'ampio respiro che esse avevano e al contempo per il desiderio che riuscivano ad iniettare di voler approfondire, sapere, leggere ed ancora leggere... Zveteremich seppe trasmetterci un amore straordinario per la sconfinata cultura russa.


Zveteremich ha lasciato la sua biblioteca e il suo archivio all'università di Messina, che ha tardato molto a metterli a disposizione degli appassionati e degli studiosi. Ma si sa la burocrazia è sempre stata nemica giurata della cultura. Da qualche anno le opere monografiche e le riviste del lascito sono consultabili; tuttavia non sono ancora accessibili i manoscritti e dattiloscritti, raccolti in ben 40 faldoni! Compensano in parte lamancanza” due pubblicazioni della stessa università - Scritti di Letteratura a cultura Russa (1996) e Pietro A. Zveteremich. L'uomo, lo slavista, l'intellettuale (2009) - e la sezione speciale tutta dedicata allo slavista del sito www.russianecho.net

Mi chiedevo qualche giorno fa, cosa rimane oggi dell'attività di questo grande studioso. Zveteremich non fu molto amato negli ambienti italiani filorusso-sovietici del suo tempo. Troppo critico, troppo indipendente, troppo irriducibile, fino al limite della blasfemia politico-sociale con Le notti di Mosca. Eppure i suoi allievi, ma anche i semplici lettori delle sue opere non hanno assaggiato nulla di “antirusso”, di pregiudizialmente antirusso, al contrario hanno assorbito un amore sotterraneo, inespresso, ma profondamente radicato verso l'alterità russa, verso la specificità russa, verso una ricchezza multiforme spesso non riconosciuta

Non possiamo dire se questo suo atteggiamento sia stata una scelta voluta, sta di fatto che molti di quegli studenti messinesi ci ritroviamo ancora a parlare di lui, abbiamo opinioni diverse sulla Russia postsovietica e non sappiamo cosa Zveteremich ne penserebbe oggi, per esemplificare, di Putin. Ma quello che più conta è che Zveteremich continua a farci pensare alla Russia senza romanticismi, senza idealismi, ma al contempo, con una passione che ci lascia distanti anni luce dall'immagine della Russia trasmessaci dal main stream mediatico e da un'editoria al novanta per cento allineata a quella della moda corrente, dove la negatività è la notizia e il resto non esiste. Infatti il messaggio per niente subliminale che quotidianamente ci arriva è pressapoco questo: “cosa può mai venire di buono da “quel” paese, attaccato al suo passato e fin troppo asiatico in molte sue dimensioni e per questo così restio ad assimilarsi ai valori indiscutibili della civilizzazione occidentale?” Zveteremich ci ha insegnato a produrre gli anticorpi alle propagande, da qualunque parte esse provengano. Suggerendoci che c'è sempre un'altra storia...

Giuseppe Iannello
Messina, 3 ottobre 2012