Un po’ di storia di un Paese in declino
Per il nostro Paese era un antico problema, dato che all'indomani dell'unificazione, nel 1861, l’Italia contava una media del 78% di analfabeti. Poi, via via, le cose andarono migliorando: nel 1901 erano il 56%; nel 1951 il 12,9%; nel 1971 il 5,2 %.
Su quest’ultima diminuzione dovette incidere non poco un programma televisivo che andò in onda tra il 1960 e il 1968, Non è mai troppo tardi, il cui protagonista fu il maestro Alberto Manzi, che insegnò le nozioni base dell’italiano a coloro che, a quel tempo, pur avendo superato l’età scolare, non le conoscevano.
In seguito, la situazione migliorò ancora, fino a giungere, nel 1991, al 2,1%.
È sconfitto allora l’analfabetismo? Si direbbe di sì, dal momento che, in base all’ultimo censimento del 2011, i cosiddetti “analfabeti strumentali”, cioè coloro, maggiori di 15 anni, che non sanno riconoscere che cosa indichi la sequenza di lettere che forma una parola, sono ormai solo l’1,1%.
Oggi però il Paese, dopo il cosiddetto “analfabetismo di ritorno”, attraverso il quale un individuo che abbia assimilato nel normale percorso scolastico le conoscenze necessarie alla scrittura e alla lettura, perde nel tempo quelle stesse competenze a causa del mancato esercizio di quanto imparato, subisce la presenza di un cosiddetto “analfabetismo funzionale”, dal quale è afflitto l’adulto che, secondo la definizione di Tullio De Mauro, pur con un titolo di studio, a distanza di anni dal suo conseguimento, non comprende il senso di un testo, non si districa nel mondo digitale e dunque non sa orientarsi nel lavoro, nel tempo libero, nelle relazioni sociali, nella gestione dei risparmi o nella tutela della salute. Insomma, costoro non sono in grado di partecipare con sufficiente consapevolezza alla vita democratica, il che, come ognuno (tranne quelli che ne sono affetti) può capire, non li rende capaci di contribuire, con consapevolezza e responsabilità, alla società in cui vivono.
Il rapporto dell’OCSE del 2017 è, in quest’ultimo senso, davvero impietoso: gli Italiani tra i 15 e i 64 anni che vivono in questa nuova condizione sono ben 11 milioni e l’Italia è al primo posto tra i 33 Paesi oggetto dell’indagine.
Non crediamo che da allora la situazione sia migliorata!
Se la gente, nel nostro bel Paese, crede a tutto è proprio perché la percentuale di analfabetismo, sia di ritorno, che funzionale, è altissima, sicché la maggioranza delle persone non è in grado di comprendere un articolo di giornale e di riassumerlo in modo semplice. In altre parole, la maggioranza della gente è incapace di cogliere la realtà, come del resto si evince con facilità dalle argomentazioni dei post e dei commenti social dei filo-leghisti (e ahimé non solo di loro!).
Di esempi ce n’è a bizzeffe.
Hanno creduto ai 35 euro al giorno agli immigrati e al wifi per loro gratuito; hanno abboccato alle vagonate di panzane, prima di Berlusconi e poi della Lega, di Ruby nipote di Mubarak o di Andreotti innocente; e oggi, dei cinesi che "mangiano i topi vivi e li abbiamo visti tutti", confondendoli con i Visitors, che però non erano cinesi ed erano un telefilm su canale 5, la rete appunto del famigerato Cavaliere senza macchia.
Con l’avvento delle televisioni private, poi, tutto è cambiato, rispetto ai tempi in cui si poteva sostenere che anche il Lascia o raddoppia? di Mike Bongiorno aveva contribuito a rendere unita nel linguaggio l’Italia.
Dovendosi sostenere con la sola raccolta pubblicitaria, le tv private (molte delle quali in mano sempre all’ineffabile e inaffondabile Cavaliere!) hanno cominciato a tener conto soprattutto degli indici di ascolto, quasi mai legati alla qualità di quanto messo in onda.
E, quel che è più grave, pure la Rai, da parte sua, inseguendo insulsamente le televisioni commerciali sul loro terreno, ha abbassato il livello culturale dei propri programmi e del suo pubblico, mentre utilizzava a larghe mani il denaro pubblico degli abbonamenti obbligatori per gli Italiani, al solo scopo di sovvenzionare lautamente star vere e presunte impegnate nel remunerativo balletto di offrirsi al migliore offerente!
Segnalava il grave possibile impoverimento intellettuale degli spettatori con effetti sull’intero corpo sociale, già il filosofo austriaco Karl Popper, nel suo notissimo saggio Cattiva maestra televisione del 1994, in cui, provocatoriamente, ma non troppo, proponeva di creare “una patente per fare la televisione”, mostrando il suo desiderio di difendere la libertà dei singoli e delle loro menti.
Popper, infatti, attribuiva alla televisione la capacità di agire in maniera inconscia sul pubblico, imponendo modelli di riferimento e gusti individuali e spingendolo ad adeguarsi in modo passivo a certi standard di opinione e di comportamento. Il filosofo era convinto che attraverso programmi diseducativi il sistema televisivo fosse in grado di diffondere la violenza nella società, provocando “una perdita dei sentimenti normali del vivere in un mondo bene ordinato in cui il crimine sia una sensazione eccezionale”. Il meccanismo si aggravava nel caso dei giovani che, essendo più influenzabili, rischiavano di confondere la finzione con la realtà, cedendo a una visione irreale della vita.
Oltre a ciò, la capacità del mezzo televisivo di anestetizzare lo spirito critico e di addormentare le masse diventava per Popper anche uno strumento di controllo politico, in grado di minare alla base lo Stato di diritto. Così egli scriveva:
“Ora è accaduto che questa televisione sia diventata un potere politico colossale, potenzialmente si potrebbe dire anche il più importante di tutti, come se fosse Dio stesso che parla. E così sarà se continueremo a consentirne l’abuso. Essa è diventata un potere troppo grande per la democrazia. Nessuna democrazia può sopravvivere se all’abuso di questo potere non si mette fine. Credo che un nuovo Hitler con la televisione avrebbe un potere infinito”.
Poiché la qualità del prodotto televisivo era ormai sacrificata all’audience, occorreva, secondo lui, preservare la libertà dal totalitarismo televisivo, molto più complesso ed efficace di quelli fino ad allora conosciuti nella storia. Popper rispose ai suoi critici in un’intervista per l’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche di Rai Educational del 1993.
Era necessario, dunque, per lui, privare il consumatore del suo piacere? Sì, se il suo piacere poteva costituire un pericolo per gli altri!
È ormai sotto gli occhi di tutti come la teoria popperiana trovi chiaro riscontro nella realtà.
La televisione si è dimostrata capace di creare bisogni fittizi, distruggere le diversità locali, svuotare di significato culture con centinaia di anni alle spalle e, soprattutto, di incattivire il telespettatore. Per averne la conferma basta guardare o aver visto una puntata di programmi come Ciao Darwin, La pupa e il secchione o Avanti un altro! O le infinite edizioni de Il grande fratello, o di Amici, che basano il loro successo sul sadismo o il voyeurismo del pubblico, pronto ad assistere divertito alle performances grottesche o patetiche dei partecipanti, o a sbirciare tra le lenzuola.
La volontaria umiliazione dei concorrenti raggiunge un livello più grave andando a toccare la questione della privacy, ancora più minacciata con l’avvento della società dello spettacolo. Nel campo dei talk show, un caso esemplare è quello di Non è la D’Urso, dove personaggi famosi o aspiranti tali rivelano retroscena intimi della loro vita privata oppure, se non hanno uno scoop abbastanza importante da gettare in pasto all’opinione pubblica, arrivano ad inventarlo, come, del resto, sono solite fare le più o meno astute macchiette recitanti di Forum.
Come temuto da Popper, la televisione sta davvero inebetendo i suoi spettatori!
Nel 2018, una ricerca della società britannica Ipsos Mori ha messo in luce come gli italiani siano il popolo più ignorante in Europa, soprattutto per quanto riguarda la percezione dell’attualità: la causa principale del record negativo è la cattiva informazione televisiva, che distorce la comune percezione della realtà con false notizie.
La scuola, in questi casi, non può essere la sola soluzione. Un ruolo importante va attribuito proprio alla televisione, che dovrebbe anche educare attraverso programmi di approfondimento culturale alla portata di tutti e appassionanti.
Ora più che mai, poi, in un’epoca in cui è diventata dominante internet e i social hanno quasi soppiantato la televisione, avremmo proprio bisogno per i nuovi moderni analfabeti di un altro Alberto Manzi e di un altro Popper, per far sì che i novelli cybernauti di internet e dei social si sappiano disciplinare nell’infinitezza attraente, ma troppo spesso estraneante della navigazione.
Felice Irrera