mercoledì 31 marzo 2021

L’Italia della comunicazione e l’instupidimento dilagante


Un po’ di storia di un Paese in declino

Per il nostro Paese era un antico problema, dato che all'indomani dell'unificazione, nel 1861, l’Italia contava una media del 78% di analfabeti. Poi, via via, le cose andarono migliorando: nel 1901 erano il 56%; nel 1951 il 12,9%; nel 1971 il 5,2 %.

Su quest’ultima diminuzione dovette incidere non poco un programma televisivo che andò in onda tra il 1960 e il 1968, Non è mai troppo tardi, il cui protagonista fu il maestro Alberto Manzi, che insegnò le nozioni base dell’italiano a coloro che, a quel tempo, pur avendo superato l’età scolare, non le conoscevano.

In seguito, la situazione migliorò ancora, fino a giungere, nel 1991, al 2,1%.

È sconfitto allora l’analfabetismo? Si direbbe di sì, dal momento che, in base all’ultimo censimento del 2011, i cosiddetti “analfabeti strumentali”, cioè coloro, maggiori di 15 anni, che non sanno riconoscere che cosa indichi la sequenza di lettere che forma una parola, sono ormai solo l’1,1%.

Oggi però il Paese, dopo il cosiddetto “analfabetismo di ritorno”, attraverso il quale un individuo che abbia assimilato nel normale percorso scolastico le conoscenze necessarie alla scrittura e alla lettura, perde nel tempo quelle stesse competenze a causa del mancato esercizio di quanto imparato, subisce la presenza di un cosiddetto “analfabetismo funzionale”, dal quale è afflitto l’adulto che, secondo la definizione di Tullio De Mauro, pur con un titolo di studio, a distanza di anni dal suo conseguimento, non comprende il senso di un testo, non si districa nel mondo digitale e dunque non sa orientarsi nel lavoro, nel tempo libero, nelle relazioni sociali, nella gestione dei risparmi o nella tutela della salute. Insomma, costoro non sono in grado di partecipare con sufficiente consapevolezza alla vita democratica, il che, come ognuno (tranne quelli che ne sono affetti) può capire, non li rende capaci di contribuire, con consapevolezza e responsabilità, alla società in cui vivono.

Il rapporto dell’OCSE del 2017 è, in quest’ultimo senso, davvero impietoso: gli Italiani tra i 15 e i 64 anni che vivono in questa nuova condizione sono ben 11 milioni e l’Italia è al primo posto tra i 33 Paesi oggetto dell’indagine.

Non crediamo che da allora la situazione sia migliorata!

Se la gente, nel nostro bel Paese, crede a tutto è proprio perché la percentuale di analfabetismo, sia di ritorno, che funzionale, è altissima, sicché la maggioranza delle persone non è in grado di comprendere un articolo di giornale e di riassumerlo in modo semplice. In altre parole, la maggioranza della gente è incapace di cogliere la realtà, come del resto si evince con facilità dalle argomentazioni dei post e dei commenti social dei filo-leghisti (e ahimé non solo di loro!).

Di esempi ce n’è a bizzeffe.

Hanno creduto ai 35 euro al giorno agli immigrati e al wifi per loro gratuito; hanno abboccato alle vagonate di panzane, prima di Berlusconi e poi della Lega, di Ruby nipote di Mubarak o di Andreotti innocente; e oggi, dei cinesi che "mangiano i topi vivi e li abbiamo visti tutti", confondendoli con i Visitors, che però non erano cinesi ed erano un telefilm su canale 5, la rete appunto del famigerato Cavaliere senza macchia.

Con l’avvento delle televisioni private, poi, tutto è cambiato, rispetto ai tempi in cui si poteva sostenere che anche il Lascia o raddoppia? di Mike Bongiorno aveva contribuito a rendere unita nel linguaggio l’Italia.

Dovendosi sostenere con la sola raccolta pubblicitaria, le tv private (molte delle quali in mano sempre all’ineffabile e inaffondabile Cavaliere!) hanno cominciato a tener conto soprattutto degli indici di ascolto, quasi mai legati alla qualità di quanto messo in onda.

E, quel che è più grave, pure la Rai, da parte sua, inseguendo insulsamente le televisioni commerciali sul loro terreno, ha abbassato il livello culturale dei propri programmi e del suo pubblico, mentre utilizzava a larghe mani il denaro pubblico degli abbonamenti obbligatori per gli Italiani, al solo scopo di sovvenzionare lautamente star vere e presunte impegnate nel remunerativo balletto di offrirsi al migliore offerente!

Segnalava il grave possibile impoverimento intellettuale degli spettatori con effetti sull’intero corpo sociale, già il filosofo austriaco Karl Popper, nel suo notissimo saggio Cattiva maestra televisione del 1994, in cui, provocatoriamente, ma non troppo, proponeva di creare “una patente per fare la televisione”, mostrando il suo desiderio di difendere la libertà dei singoli e delle loro menti.

Popper, infatti, attribuiva alla televisione la capacità di agire in maniera inconscia sul pubblico, imponendo modelli di riferimento e gusti individuali e spingendolo ad adeguarsi in modo passivo a certi standard di opinione e di comportamento. Il filosofo era convinto che attraverso programmi diseducativi il sistema televisivo fosse in grado di diffondere la violenza nella società, provocando “una perdita dei sentimenti normali del vivere in un mondo bene ordinato in cui il crimine sia una sensazione eccezionale”. Il meccanismo si aggravava nel caso dei giovani che, essendo più influenzabili, rischiavano di confondere la finzione con la realtà, cedendo a una visione irreale della vita.

Oltre a ciò, la capacità del mezzo televisivo di anestetizzare lo spirito critico e di addormentare le masse diventava per Popper anche uno strumento di controllo politico, in grado di minare alla base lo Stato di diritto. Così egli scriveva:

Ora è accaduto che questa televisione sia diventata un potere politico colossale, potenzialmente si potrebbe dire anche il più importante di tutti, come se fosse Dio stesso che parla. E così sarà se continueremo a consentirne l’abuso. Essa è diventata un potere troppo grande per la democrazia. Nessuna democrazia può sopravvivere se all’abuso di questo potere non si mette fine. Credo che un nuovo Hitler con la televisione avrebbe un potere infinito”.

Poiché la qualità del prodotto televisivo era ormai sacrificata all’audience, occorreva, secondo lui, preservare la libertà dal totalitarismo televisivo, molto più complesso ed efficace di quelli fino ad allora conosciuti nella storia. Popper rispose ai suoi critici in un’intervista per l’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche di Rai Educational del 1993.

Era necessario, dunque, per lui, privare il consumatore del suo piacere? Sì, se il suo piacere poteva costituire un pericolo per gli altri!

È ormai sotto gli occhi di tutti come la teoria popperiana trovi chiaro riscontro nella realtà.

La televisione si è dimostrata capace di creare bisogni fittizi, distruggere le diversità locali, svuotare di significato culture con centinaia di anni alle spalle e, soprattutto, di incattivire il telespettatore. Per averne la conferma basta guardare o aver visto una puntata di programmi come Ciao Darwin, La pupa e il secchione o Avanti un altro! O le infinite edizioni de Il grande fratello, o di Amici, che basano il loro successo sul sadismo o il voyeurismo del pubblico, pronto ad assistere divertito alle performances grottesche o patetiche dei partecipanti, o a sbirciare tra le lenzuola.

La volontaria umiliazione dei concorrenti raggiunge un livello più grave andando a toccare la questione della privacy, ancora più minacciata con l’avvento della società dello spettacolo. Nel campo dei talk show, un caso esemplare è quello di Non è la D’Urso, dove personaggi famosi o aspiranti tali rivelano retroscena intimi della loro vita privata oppure, se non hanno uno scoop abbastanza importante da gettare in pasto all’opinione pubblica, arrivano ad inventarlo, come, del resto, sono solite fare le più o meno astute macchiette recitanti di Forum.

Come temuto da Popper, la televisione sta davvero inebetendo i suoi spettatori!

Nel 2018, una ricerca della società britannica Ipsos Mori ha messo in luce come gli italiani siano il popolo più ignorante in Europa, soprattutto per quanto riguarda la percezione dell’attualità: la causa principale del record negativo è la cattiva informazione televisiva, che distorce la comune percezione della realtà con false notizie.

La scuola, in questi casi, non può essere la sola soluzione. Un ruolo importante va attribuito proprio alla televisione, che dovrebbe anche educare attraverso programmi di approfondimento culturale alla portata di tutti e appassionanti. 

Ora più che mai, poi, in un’epoca in cui è diventata dominante internet e i social hanno quasi soppiantato la televisione, avremmo proprio bisogno per i nuovi moderni analfabeti di un altro Alberto Manzi e di un altro Popper, per far sì che i novelli cybernauti di internet e dei social si sappiano disciplinare nell’infinitezza attraente, ma troppo spesso estraneante della navigazione.


Felice Irrera


martedì 23 marzo 2021

MORIREMO … DI SPERANZA

 

Versi di queste ore...


MORIREMO … DI SPERANZA







E rimase in piedi contro il vento

l’anello debole dei poteri forti

col suo ghigno emaciato la cravatta

slacciata a mezzo l’abito

bisunto la barba mal fatta.


In piedi rimase a inventare il nulla

firmando con mani non sue

il destino di chi l’aveva eletto

gallo in un pollaio ormai vuoto.


Prima erano volpi e serpenti

a regnare sul bosco predando

quanto restava della notte

poi fu la volta di cani randagi e somari

che ragliavano a comando

ogni volta che il re lo decideva.


GIUSEPPE RUGGERI



domenica 21 marzo 2021

L'Utopia di Tommaso Moro secondo Berlusconi

 Il plagio che non ti aspetti: una storia recuperata spulciando i giornali

Ormai è diventato per me proprio un vizio quello di spulciare giornali di molti anni fa per scoprire qualche appetitosa chicca da offrire a chi quegli anni non ha vissuto o di cui ha perso memoria.

Questa volta tocca ad un articolo, risalente a una quindicina di anni, fa di Marco Travaglio, oggi direttore del “Fatto Quotidiano” e invece in forza a “Repubblica” al tempo al quale ci riferiamo, esattamente il 23 marzo 2006.

Ciò che mi spinge a questo “rinfresco” di memoria è il desiderio di sottolineare che, oltre alla responsabilità del degrado morale che ha provocato al Paese, grazie agli spettacoli avvilenti offerti dalle sue televisioni e a quelli delle sue avventure personali muliebri e giudiziarie, il già cavaliere Silvio Berlusconi ha coltivato anche il “vizietto” di atteggiarsi, senza alcun merito concreto, ad intellettuale.

Qualche italiano può forse ricordare come egli si vantasse di passare (a pagamento!) la versione di latino ai compagni di classe, ma forse pochi hanno memoria dell’istruttivo aneddoto ricordato, appunto, da Travaglio nell’articolo sopra citato.

Siamo in un’estate di metà degli anni Ottanta e il prof. Luigi Firpo, noto storico del pensiero politico, in particolare di Machiavelli, Erasmo e Moro, nonché già deputato repubblicano alla Camera, si sta godendo con la moglie la villeggiatura nella sua villa sulle colline del Torinese, guardando la Tv.

Ma ecco che su Canale Cinque gli compare Silvio Berlusconi, intervistato da una graziosa signorina, sua dipendente, che non mancò di esaltarne la straordinaria preparazione culturale proclamandolo grande studioso dei classici. E mentre il Cavaliere per antonomasia si schermiva, ostentando modestia, lei continuò, affermando che il suddetto “dottore” aveva appena pubblicato un´edizione pregiata dell´Utopia di Tommaso Moro, con una bellissima prefazione e una perfetta traduzione dal latino! Da qui l’affermazione dell’intervistato: “Beh, in effetti il latino non lo conosciamo tutti, bisogna tradurlo!”.

Fu allora che il professor Firpo, che aveva da poco tradotto e commentato proprio un´edizione dell´Utopia di Moro per l´editore Guida di Napoli, sentendo poi anche leggere dall’intervistatrice, ad esaltazione del genio berlusconiano, la prefazione del Cavaliere, proruppe indignato: “Ma quella prefazione è la mia! È tutta copiata! Ma chi è questo signore? Ma come si permette?”.

Così ho riassunto l’articolo di Travaglio, che poi così continua nel suo articolo, risalente come detto, al 2006:

L´episodio è tornato in mente a Laura Salvetti, la vedova di Firpo [scomparso nel 1989, n.d.r.], qualche giorno fa, quando Silvio Berlusconi in una delle sue tele-esternazioni elettorali si è così descritto in terza persona: «Il presidente del Consiglio si è nutrito di ottime letture e ha un curriculum di studi rilevantissimo...». È corsa in archivio, ha estratto una cartella intitolata "Berlusconi", ne ha cavato uno strano bigliettino autografo del Cavaliere e ha deciso di raccontarne il retroscena”.


In sostanza, ancora riassumendo quanto raccolto allora da Travaglio nell’intervista alla Salvetti, scoperto che Berlusconi aveva copiato la sua versione dell’Utopia di Thomas More, Firpo aveva cercato, prima di tutto, di avere il libro firmato dall’illustre quanto svergognato pseudo-autore, riuscendo con difficoltà (gli spiegarono che era un’edizione privata) a procurarsene in visione una copia, da cui risultò subito irrefutabilmente che interi brani della prefazione e tutta la traduzione dal latino era stata dall’uomo di Arcore copiata! Furibondo, gli scrisse minacciando la denunzia. Ma, qui, lasciamo di nuovo la parola a Travaglio:

A questo punto inizia un irresistibile balletto telefonico, con il Cavaliere che cerca scuse puerili per placare l´ira dell´austero cattedratico, e questi che, sbollita la furia, si diverte a giocare al gatto col topo. Firpo minaccia di mettere in piazza tutto e trascinarlo in tribunale. «Berlusconi - ricorda la moglie - incolpò subito una collaboratrice, che a suo dire avrebbe copiato prefazione e traduzione a sua insaputa. E implorò Firpo di soprassedere, pur precisando di non poter ritirare le mille copie già stampate e regalate ad amici e collaboratori. Firpo, capito il personaggio, cominciò a divertirsi alle sue spalle. Lo teneva sulla corda con la causa giudiziaria. E Berlusconi continuava a telefonare un giorno sì e un giorno no, con una fifa nera. Pregava di risparmiarlo, piagnucolava che uno scandalo l´avrebbe rovinato”.

In una seconda fase, nel tentativo di rabbonire il professore, arrivarono regali costosi, che Firpo rispediva sdegnosamente al mittente. Ma anche le telefonate continuavano, come risulta dall’intervista:

«Passava - ricorda la moglie Laura - intere mezz´ore al telefono col Cavaliere. E alla fine correva a raccontarmele, fra l´indignato e il divertito: sapessi quante barzellette conosce quel Berlusconi. È un mercante di tappeti, una faccia di bronzo da non credere, sembra di essere in una televendita».

Il tira e molla si trascinò per mesi e ci fu pure uno scambio di lettere, che all’epoca dell’intervista erano ancora riservate, ma si sarebbero potute rendere pubbliche solo nel 2009, vent´anni dopo la morte dello studioso (e chissà se lo sono state!).

Così termina l’illuminante intervista alla consorte dello studioso:

Nel frattempo Berlusconi aveva pubblicato un´edizione riveduta e corretta dell´Utopia, senza più la prefazione copiata e con la traduzione di Firpo regolarmente citata. Ma Firpo seguitava a fare l´offeso, ripeteva che la cosa era grave e la stava ancora valutando con gli avvocati. Un giorno lo invitarono a Canale 5 per parlare del Papa e si ritrovò Berlusconi dietro le quinte che gli porgeva una busta con del denaro, ‘per il suo disturbo e l´onore che ci fa’. Naturalmente la rifiutò. Poi a Natale arrivò un corriere da Segrate con un bouquet di orchidee che non entrava neppure dalla porta e un pacco: dentro c´era una valigetta ventiquattr´ore in coccodrillo con le cifre LF in oro. Il biglietto d´accompagnamento è intestato Silvio Berlusconi, datato ‘Natale 1986’ (ma l´ultima cifra è uno scarabocchio) e scritto a penna: ‘Molti cordiali auguri ed a presto... Spero! Silvio Berlusconi’.

Poi una frase aggiunta a biro: ‘Per carità non mi rovini!!!’. Ma Firpo continuò il suo gioco: rispedì la borsa a Berlusconi, con un biglietto beffardo: ‘Gentile dottore, la ringrazio della sua generosità, ma gli oggetti di lusso non mi si confanno: sono un vecchio professore abituato a girare con una borsa sdrucita a cui sono molto affezionato. Quanto ai fiori, la prego anche a nome di mia moglie Laura di non inviarcene più: per noi, i fiori tagliati sono organi sessuali recisi...’. Non lo sentimmo mai più”.

Che sia stato per quest’ultima allusione?

Felice Irrera



sabato 6 marzo 2021

MANGIARE COI LIBRI

 Quando per mezzo litro d’olio si vendevano volumi rari...

Mi è rimasta impressa nella mente in modo indelebile una frase pronunziata alcuni anni fa dall’allora ministro del Tesoro Giulio Tremonti: “Con la cultura non si mangia!”.

L’illustre quanto supponente politico di destra dimenticava allora che il suo stesso mentore, Silvio Berlusconi, “mangiava” anche con quell’ampia fetta dell’editoria italiana da lui controllata che certo con la cultura, anche a dispetto del padrone, qualcosa aveva che fare!

Ma a proposito dell’importanza dei libri, si può dire anche qualcosa di molto concreto.

Sfogliando vecchi giornali che qualcuno crede possano servire, una volta letti, soltanto a pulire i vetri o ad avvolgervi il pesce, si scoprono notizie che ancora oggi possono far meditare.

Ed ecco che in un ritaglio del “Giornale d’Italia” del 30 aprile 1957, nel quale, purtroppo, non risulta la firma, scopriamo un articolo che testimonia come, paradossalmente, proprio i libri possano sostenere non solo, come molti sostengono, la nobile mente, ma anche il prosaico corpo.

Il pezzo in questione si riferisce al periodo, allora ancora abbastanza vicino, dell’occupazione tedesca, quando, a dire del giornalista, si vendettero tantissimi libri usati non solo dai librai, ma anche dai privati.

Prima, com’è noto, chi vendeva libri usati era lo studente dopo gli esami felicemente superati, oppure chi, avendo ereditato da uno zio canonico o notaio centinaia di volumi, non sapeva che farsene.

Ma nel periodo sopra detto si verificò un fatto straordinario, perché si potevano spesso vedere giornalmente signori seri, noti scrittori, pro­fessionisti, critici d'arte e persino com­mendatori, prima abituati a spendere con gioia in libri una parte dei loro guadagni, entrare nelle li­brerie con un pacco di libri sotto il braccio ed uscirne poi con un’aria falsamen­te disinvolta senza quel pacco.

Che era successo?

Quando i Tedeschi occuparono Roma, molti intellettuali si ritrovarono in strettezze economiche e per fronteggiarle, in attesa della liberazione della città, dopo aver venduto oggetti quali mobili, tappeti e argenteria, si accorsero che era venuta l’ora dei libri. Certo, si cominciò con quelli che si amavano meno e che non si sarebbero più riletti; ma poi si passò alle edizio­ni di lusso, a quelle numera­te, ai libri preziosi di arte, di let­teratura, di teatro, di storia, ad altri libri stampati nel Seicen­to e nel Settecento, alle rarità bi­bliografiche di Lipsia, di No­rimberga, di Amsterdam, di Venezia, a qualche ghiotta rac­colta illustrata da artisti famo­si.

Il distacco avvenne con una stretta al cuore, sopportata solo grazie alla conversione in contanti che i librai, in generale, davano volentieri, dopo qualche contrattazione, perché rivendevano me­glio. Ma il denaro serviva a sbarcare il lunario e non ba­stava mai, sebbene la borsa nera non avesse raggiunto un grado di sapiente perfezione e i prezzi non fossero saliti alle vertiginose altezze successive.

Il bisogno trapelava dagli an­nunci economici dei giornali, nei quali, alla lettera L, si leg­geva ogni tanto: “Libri. Cambierei volumi di arte, di sto­ria, dì letteratura con generi alimentari”; oppure “Privato offre a privato libri in cambio di vettovaglie”.

Insomma, chi si decide­va a un passo così grave non nascondeva con graziose perifrasi e con bugiardi eufe­mismi le condizioni in cui ver­sava, ma le confessava candida­mente e se la sua coscienza di bibliofilo gli avesse rimpro­verato come una colpa l'an­nuncio economico, egli avreb­be magari risposto col noto aforisma:

Primum vivere, deinde philosophari”!

Il giornalista autore di quest’articolo che ho cercato di riassumere scrive di ricordarsi di una visita ri­cevuta in quel tempo da una sua cara amica:

Si era appe­na seduta e non mi aveva ancora domandato come sta­vo, quando cominciò a fissare una libreria che le stava di fronte, dove erano allineati certi libri dalla copertina ver­de; come per indovinare da lontano i titoli di ciascuno. Supposi che ne volesse uno in prestito; e fui sorpreso al­lorché mi chiese se avevo le “Grotte Vaticane” di Gide. Come mai - dissi fra me - proprio Gide? Questa si­gnora non è di quelle che seguono le mode intellettuali e leggono libri pericolosi. Miste­ro. Le risposi che non avevo nulla di Gide ed ella, con un sorriso contrariato, che mi di­mostrò ancora una volta la sua buona amicizia: “Peccato. C'è un signore che ha tutta la collezione, ma gli manca Gide. Avrebbe dato, per aver­lo, mezzo litro d'olio”. L'olio costava, anche allora, ottocen­to lire al litro. Per me sareb­be stato un affare”.

Qualcuno potrebbe inorridire, apprendendo che un libro di Gide fu paragonato a mezzo litro d'olio; e forse qualche altro non prenderà la cosa sul tra­gico, e passando in rassegna un certo gruppo di scrittori, si domanderà con maligna cu­riosità, a chi meglio conven­gano i legumi, il lardo, le mar­mellate, e se per caso non vi sia anche qualche scrittore, autore di molti volumi, che possa aspirare ad una salu­meria!

Dei libri, almeno di certi libri, si è sempre detto che sono il nutrimento dello spirito; ed è senz’altro vero. Ma la guerra dimostrò paradossalmente, come si vede, che i libri possono sostenere anche il corpo, perché gli scrittori venduti in quelle tristi occasioni alleviarono molte pene, porta­rono il pane su qualche men­sa, ricambiarono la simpatia di coloro che avevano comprato e letto le loro pubblicazioni!

Chissà se verrà mai un giorno in cui qualcuno, ricordando le miserie atroci della guerra o di qualche altro cataclisma, dirà ai suoi figli: “Se non avessimo avuto allora l’Opera omnia di D'Annunzio, saremmo morti di fame”; oppure: “Fummo salvati dall'Enciclopedia Treccani”!

Conclude testualmente il nostro giornalista:

Certo è che quella fu l’età dell'oro dei libri usati. Li compravano pri­ma di tutto altri studiosi o semplici collezionisti che ave­vano denaro da spendere, poi certi nuovi ricchi che preve­devano la svalutazione della lira, infine i tedeschi. Vi erano molti professori che si ripromettevano, appena tornati a casa, di con­tinuare a servire nella pace la cultura, non come l'avevano servita nella guerra, brucian­do biblioteche ed università. Quando gli Alleati giunsero a Roma, il commercio dei libri già declinava, ma chi posse­deva il fiuto del bibliofilo poté ancora acquistare libri di va­lore che forse altrove non avrebbe trovato. Ora, tranne i librai, nessu­no vende più nessun libro”.

Ma, da parte nostra, concludiamo smentendo quest’ultima affermazione, perché basta frequentare i mercatini per vederne tanti di libri! Essi sono il risultato di svuotamenti da parte degli eredi di case private alla morte dei proprietari che i libri amavano; o semplici eliminazioni, per pura e semplice mancanza di spazio.

Chi è un assiduo frequentatore di questi luoghi, però, sa bene che può comunque trovarvi qualche perla smarrita, a causa della fretta, da un ignorante.


Felice Irrera