Un
cittadino di Messina potrebbe aver voglia di sapere, al di là delle
accuse che gli sono state mosse, perché per mesi è stato posto agli
arresti domiciliari il giornalista-editore del settimanale messinese
a diffusione regionale “Centonove”, una delle pochissime voci
libere in questa martoriata città, che fu già definita “un
verminaio”, durante la visita di alcuni anni fa della Commissione
antimafia, a causa degli intrecci perversi esistenti tra i
cosiddetti, innominabili, poteri forti che l’hanno ridotta nello
stato che è sotto gli occhi di tutti.
Circolano
le voci più strane e inverosimili su questo vero e proprio “caso
Basso”: che non sia stato nemmeno sentito in un contraddittorio
dagli inquirenti (possibile, in uno stato di diritto?); che non sia
stato nemmeno raggiunto da un avviso di garanzia (ma questa è
certamente una “bufala”, visto che viviamo, come già detto, o
dovremmo vivere in uno stato di diritto); che i suoi lunghissimi
arresti domiciliari siano del tutto impropri, visto che non esiste
ormai da tempo né il pericolo di reiterazione del reato, né il
pericolo di fuga, né la possibilità che il colpevole presunto (che
rimane tale sino alla celebrazione del processo) possa inquinare le
prove, dal momento che tutto quanto concerneva la sua attività è
stato posto sotto sequestro.
Per
quanto ne sappiamo, Enzo Basso è stato destinatario di un
provvedimento restrittivo della libertà da parte del
Tribunale
di Messina per una serie di cambi societari considerati anomali in
una inchiesta che riguarda proprio la gestione della
testata:
l’indagato
o l’imputato (quando e se si arriverà a processo)
sarebbe
una sorta di giocoliere, fondatore di società che poi avrebbe
dissanguato per non pagare i creditori.
Basso,
da parte sua, afferma di non avere debiti con le banche e che è lui
ad aver intentato una causa per usura e anatocismo contro due
istituti di credito e spiega che le problematiche fiscali su tasse e
credito d’imposta, relative ai cambiamenti di gestione avvenute nel
passaggio da “Centonove” a due cooperative, sono oggetto di cause
pendenti e non ancora, quindi, definite.
Aggiunge
ancora che l’accusa a lui mossa non è, come da troppi si è detto,
di “bancarotta fraudolenta”, ma di “bancarotta impropria”,
termine giuridico che sta a significare che Basso avrebbe danneggiato
se stesso non presentando decreti ingiuntivi contro una cooperativa
di soci-giornalisti (alla quale l’Editoriale Centonove ha ceduto,
con regolare atto notarile, la testata “Centonove”, versando
regolarmente le tasse), che non riusciva a pagare quanto pattuito.
E
dove sarebbe il “disegno criminoso” di Basso di accedere ai
contributi sull’editoria previsti da una legge del 1990, se la
cooperativa Kimon non ha mai ricevuto un euro?
Dove
sarebbe l’ “unica direzione aziendale” del “criminale” se
esistono tre diverse società, con dipendenti regolarmente
contrattualizzati e contributi e tasse regolarmente versati? E il
colpevole finanziamento IRCAC, che mai, in realtà, è stato erogato
per mancanza di fidejussione?
Intanto,
il giornale è stato posto all’asta e, a prescindere da chi lo
comprerà (saremo curiosi su di esso), è comunque scomparsa una voce
libera della nostra città, una vera e propria fucina
per tantissimi cronisti e giornalisti, che in essa si sono formati.
Auspichiamo
che la magistratura possa chiarire al più presto quelli che al
comune cittadino sembrano, a tutt’oggi, i tanti lati oscuri della
vicenda. Vogliamo credere che a ciò si possa giungere prima
possibile per il bene della verità e soprattutto per il bene di
questa città.
Felice Irrera
Giuseppe Iannello
Gerardo Rizzo