“Fissato
ne l’idea de l’uguajanza
un
gallo scrisse all’aquila: compagna,
siccome
te ne stai ‘nta la montagna
bisogna
ch’abolimo ‘sta distanza
ch’io
stia tra la monnezza del cortile
ma
sarebbe più comodo e più bello
de
vive’ ner medesimo livello.
L’aquila
je rispose: Amico mio,
accetto
volentieri la proposta
volemo
fa’ amicizia? So’ disposta
ma
nun pretenne che m’abbassi io
se
te senti la forza necessaria
spalanca
l’ali e viettene per aria
se
nun t’abbasta l’anima de’ fallo
io
seguito a fa’ l’aquila e tu er gallo.”
(Trilussa)
Lungo,
quasi senza fine il nastro grigio del viale che costeggia il
lungomare. Messina, in questo suo tuffo nella nebbia che leggera si
alza dalle sommità peloritane, è irreale e per questo bellissima,
figlia di un sogno a occhi aperti. Un sogno fatto in Sicilia –
direbbe Leonardo Sciascia.
La
città è deserta, un vento freddo screpola le labbra, e tutto ciò
dà maggior consistenza al sogno perché quel soffio sembra spingermi
verso un orizzonte impalpabile. Scendo dalla macchina per entrare in
farmacia nel silenzio spettrale di un pomeriggio senza colore, senza
tempo, senza nulla che possa farlo somigliare a un pomeriggio.
Ed
è proprio in quello che, da un punto indefinito del viale - che
potrebbe essere avanti o indietro rispetto a dove mi trovo, ma forse
anche per aria – ci abbiamo ormai fatto l’abitudine a quegli
strani oggetti ronzanti che da giorni spiano ogni nostra mossa –
ecco venir fuori una voce.
Un
gracchiare, piuttosto, che dalle oscure cavità di un rudimentale
megafono fissato al tetto di una bianca utilitaria, attraversato un
budello contorto di tubi e di fili, esce finalmente allo scoperto
ripetendo, con sincronica cadenza, una frase incomprensibile.
Incomprensibile
perché la lingua, quando si attorciglia su se stessa regredendo fino
alla sua forma fonemica, diventa pura materia da interpretare, codice
criptico da decrittare. Succede – e di frequente – nella nostra
travagliata post-modernità, quando i mostri della paura e del
delirio prendono il sopravvento sul resto.
Odo
una due tre volte quella voce. La capisco e non la capisco. E’ un
rosario profano snocciolato per esorcizzare tutti quei mostri,
renderli innocui grazie al potente rito apotropaico che mette in
atto. Una formula che si propone di scacciare ogni male con la sola
forza del suo arcaico terroso alfabeto.
Un
alfabeto privo di senso. Ma che quel senso rincorre, eccome, con le
ali sgraziate di chi si solleva in volo ma volare non può, al
massimo planare a stento tra sbuffi di polvere e lezzo di pollai.
Ricordate Trilussa? L’aquila non ci sta ad abbassarsi fino al
gallo, se il gallo vuole esserle pari, che spicchi il volo verso le
altezze vertiginose dell’aquila.
“Dove
c*** vai? Guarda che ti becco. Torna a casa” mi è parso di
sentire. Ma non ho sentito solo questo. Ho sentito pure acredine,
disprezzo. Soprattutto, ho sentito la iattanza di chi, scientemente,
si diverte a perpetrare un sopruso. Lo fa dall’alto della posizione
di un gallo convinto d’essere aquila perché la folla che lo sta
portando in trionfo gli fa credere d’avere superato la siderale
distanza che lo separa dalla regina degli uccelli.
Ma
cosa succederà quando quelle ali festanti di folla, stanchi delle
sue angherie, lo lasceranno precipitare al suolo?
Niente
d’importante. Nessuno se ne accorgerà.
E
lui sarà soltanto uno dei tanti galli che hanno sognato di diventare
le aquile che non potranno mai essere.
Giuseppe
Ruggeri