Nel
febbraio di molti anni fa (era il 2003), ebbi occasione di
presentare, nella biblioteca del Liceo “Maurolico” di cui ero
allora responsabile, il carteggio ancora inedito tra Salvatore
Quasimodo e Manara Valgimigli, curato da Peppino Pellegrino (poi
scomparso il 4 aprile 2012, all’età di 89 anni), docente di
lettere classiche e poi preside, credente convinto e intellettuale
cattolico di alta statura, che diede vita alla casa editrice SPES,
contribuendo con il suo sapere e le sue pubblicazioni alla
conoscenza di tanti uomini di cultura a livello nazionale come
Federico Sciacca, Filippo Bartolone, Vittorio Enzo Alfieri.
In
quell’occasione, prima di cedere la parola al caro prof.
Pellegrino, ebbi modo di illustrare brevemente la figura di Manara
Valgimigli, uno dei tanti illustri docenti che diedero fama a quel
Liceo “Maurolico” che, unico in Italia, reca il nome
dell’illustre scienziato e che è pure il primo liceo classico nato
nel territorio messinese.
Mi
piace ricordare quanto allora dissi perché posso accomunare per un
momento due di quegli uomini di alta cultura, di cui l’Italia in
questo momento avrebbe tanto bisogno.
Così
allora brevemente presentai la figura di Valgimigli:
“È
un vero piacere ricordare qui brevemente Manara Valgimigli, dotto
filologo, fine esegeta, arguto narratore, un vero maestro, insomma,
perché fu uno dei più illustri docenti del nostro Liceo e come
pochi altri legato da vincoli d’affetto a Messina.
Laureatosi
nel 1898 a Bologna, dove ebbe maestri, fra gli altri, Carducci e
Gandino, venne poco dopo a Messina ad insegnare Lettere al Ginnasio
pareggiato del Convitto “Dante Alighieri”, grazie alla
segnalazione di Giovanni Pascoli che c’era lì bisogno di un
insegnante. Durante gli anni di quel primo soggiorno nella nostra
città frequentò spesso la casa del Pascoli, allora professore
ordinario di Letteratura latina nel nostro Ateneo.
Nel
1904 Valgimigli lasciò Messina per insegnare a La Spezia e Lucera,
ma alcuni anni dopo, nel novembre del 1909, ritornò volontariamente
in città come professore di latino e greco al Maurolico, che
naturalmente aveva subito la terribile distruzione del terremoto e
aveva una sede baraccata. Così egli racconta quell’esperienza:
“Avevo
chiesto io di ritornare. “Stanno riaprendo il Liceo” mi dissero
al Ministero. In realtà avevano appena incominciato a costruirlo.
C’erano di gran travature, e palchi, e un andare e venire di
falegnami, e pialle e seghe e martelli e trucioli e casse di chiodi;
in una specie di stanza ancora senza finestre e col tetto non anche
ricoperto, il segretario Felici aveva raccolto alla meglio quel che
di registri e documenti aveva potuto salvare dal vecchio Liceo
rovinato”.
|
La Biblioteca del Liceo Maurolico oggi |
Al
Maurolico Valgimigli insegnò fino a tutto il 1913. Descrive in
alcune vivaci pagine narrative la vita che allora visse “in
baracca”. La moglie e la figlia lo aspettavano
“verso
mezzogiorno, fuori dalla porta di casa, nella strada. La vita di
baracca era anche molto vita di strada. Mi venivano incontro col
boccale dell’acqua, perché si andava insieme a riempirlo alla
fontana per il desinare”.
Lì,
in quella baracca di legno in fondo al Viale San Martino veniva a
trovarlo Giorgio Pasquali, che poi sarebbe stato uno dei più
illustri filologi italiani e che allora insegnava all’Università e
lì s’intratteneva spesso con parecchi amici messinesi.
Valgimigli
ritornò un’altra volta nella “sua” Messina nel 1921, come
professore universitario di letteratura greca, rimanendovi fino al
1924, prima di continuare la sua carriera a Pisa, a Padova e poi a
Ravenna, dove diresse la “Biblioteca Classense”. Concluse la sua
vita in provincia di Bergamo nel 1965.
Forse
nessuno dei forestieri ospitati dalla nostra Università o dalle
nostre scuole conservò come Manara Valgimigli un ricordo di Messina
così caro e costante verificabile da parole come queste:
“Non
sono legato a nessun’altra terra, a nessun’altra città, di così
vivo e tenero amore come a questa. Tutte le tappe del mio mestiere di
maestro di scuola le ho incominciate lì: dalla prima, quasi ragazzo,
in un ginnasietto di collegio, fino all’ultima. Quivi nacque un mio
bimbo: quivi crebbe una mia figliolina”.
E
più in là:
“Il
messinese schietto ha una sua aristocrazia che io non saprei in
Italia ritrovar simile se non in qualche città del Veneto; non solo
formale, ma signorile nell’intimo; e fastidio e ripudio assoluto di
ogni pedanteria e grettezza; e in più una generosità che è propria
del sangue siciliano, sostenuta da un senso superiore della vita, tra
rassegnato e malinconico e amaro, il quale risale, credo, molto
lontano, e forse muove dalla stessa sorgente a cui nutrirono il loro
sorriso Socrate e i grandi sofisti”.
Per
queste parole, per l’affetto dimostrato nei confronti di Messina,
per il suo impegno di maestro al “Maurolico” abbiamo voluto
brevemente ricordarlo, giovandoci delle belle pagine scritte su di
lui da Giuseppe Sciarrone, che nel 1961, in occasione del centenario
della fondazione del “Maurolico”.
Questa
la mia rievocazione di allora.
Adesso,
ad incrementare questo mio ricordo di un grande, mi vien tra le mani
un articolo del giornalista Gigi Ghirotti, scomparso nel 1974, dal
titolo “Un grecista in convento”, che tratta proprio di
Valgimigli, il quale nel 1942 si trovava a Ravenna, dove
quest’illustre traduttore dei classici viveva in una cella di
antichi frati, inconsapevole che nel 1948, andato in pensione,
sarebbe stato chiamato
nella stessa città, per chiara fama, alla direzione, come già detto
nella mia presentazione, della Biblioteca Classense, dove sarebbe poi
rimasto
fino al 1955.
Ghirotti
ribadisce che
fu proprio Pascoli, professore di latino all'Università di Messina,
a chiamare Valgimigli, ancor fresco di laurea, nella città dello
Stretto nel 1898, ad insegnare nel ginnasio della città
siciliana, aggiungendo il particolare che egli vi arrivò
“in
vagone di terza classe, avvolto in un cappottuccio da pochi soldi,
ricco di santi entusiasmi per la poesia”.
E
continua ancora il giornalista, raccontando di lui nuovi particolari:
“L'amicizia
con Giovanni Pascoli divenne affettuosa intimità. Nel poeta,
già affermato per le sue poesie italiane e già premiato ad
Amsterdam per i poemetti latini, rimaneva il rimpianto di non
poter dedicare più tempo allo studio dei poeti greci, e di
questo rammarico parlava spesso al giovane Valgimigli. Il quale
un giorno, uscito da lezione, annunciò al Pascoli: «Mi
do al greco. Ho deciso». Da quel giorno incominciò il grande ciclo
della revisione critica dei testi classici e della moderna
interpretazione del mito ellenico: di questa fatica, durata
mezzo secolo, la scuola italiana è stata testimone (...). A 76 anni,
senza più nessuno al mondo, il vecchio professore continua a
leggere e a vivere accanto ai suoi poeti (...). Non più scolaresche
inquiete gli sono affidate, ma grandi sale mute, odorose di
libri, stipate di libri. Con un mazzo di chiavi alla cintola, vestito
di un camice bianco, Manara Valgimigli, simile ad un candido
priore camaldolese, passeggia in quel suo regno assorto; due
volte al giorno va a visitare le celle, fitte di codici e volumi
secolari”.
A proposito della sua traduzione dei Carmina di
Giovanni Pascoli (Milano, 1951), Ghirotti recupera, infine, nel suo
articolo, ancora un gustoso aneddoto, riguardante indirettamente
Messina:
“Talvolta,
le incertezze non lo lasciavano dormire. Per esempio, un verso latino
del Pascoli parlava della "rugiada della barchetta".
Fatto appello a tutte le risorse della filologia, il rompicapo
rimaneva tale e quale: che cos'aveva voluto dire il poeta?
Finalmente, come per un'improvvisa illuminazione,
Valgimigli ricordò
che spesso il Pascoli nelle sue passeggiate serali a Messina gli
aveva indicato la luna chiamandola "la barchetta"
o anche "la navicella del cielo", per la sua forma arcuata.
E venne facile allora la traduzione: "la rugiada lunare".
E venne facile allora la traduzione: "la rugiada lunare".
Sarebbe
troppo chiedere che a questo illustre filologo, che diversi anni
dimorò nella nostra città, impartendo la sua vastissima dottrina a
studenti liceali del prestigioso “Maurolico” e ad universitari e
citò più volte con affetto Messina nelle sue opere, fosse
intitolata almeno una strada?
Felice
Irrera