venerdì 29 gennaio 2021

UN SONETTO NIENTE AFFATTO ANONIMO

Giuseppe Emanuele Ortolani
Mons. Raus e Requisens


Riportato proprio all’inizio del recente volume di Giuseppe Martino “Porto, Privilegi & Pulici” (Terme Vigliatore 2019) incentrato sulla Messina del Settecento, c’è un sonetto ritrovato manoscritto (così scrive l’autore) fra le carte dell’architetto Gian Francesco Arena alla Biblioteca Regionale di Messina e che Martino dice, appunto (non sappiamo se sulla scorta di altre note ritrovate tra quelle carte o di sua completa invenzione), opera di un anonimo settecentesco, dando in tal modo abbrivio al suo libro, che è poi incentrato proprio, come si è detto, sulla Messina del XVIII secolo.. 

In realtà, l’autore di questo sonetto è ben conosciuto, come testimoniato già due secoli fa dalla “Biografia degli uomini illustri della Sicilia” di Giuseppe Emanuele Ortolani (Napoli 1821, vol. IV), dove si legge proprio un’esauriente biografia di mons. Simone Raus e Requisens, nobile palermitano del XVI secolo, definito dall’autore “poeta leggiadro” non solo in volgare, ma in dialetto, divenuto anche vescovo di Patti: sua è, appunto, una raccolta postuma di “Rime” stampata a Venezia nel 1672, da noi rintracciata, di cui trascriviamo qui l’originale esattamente nella grafia usata nell’opera:


Descrizione encomiastica di Messina


Sorge in teatro: e l'è corona un monte,

Cui l'Alba imperla, e 'l primo Sole indora;

Città, che ’l mare, e 'l Ciel mentre innamora;

Il piè le bacia il mare, il Ciel la fronte.


Quinci rompe il Tirren, l'Ionio à fronte,

Sol per lei vagheggiar l'onda sonora.

Quindi par ch’a vederla, Italia ancora

Affretti i colli, e sovra ’l mar sormonte.


Per lei s'arma Orion di stelle d'oro:

E, à custodirla, entro sassoso laccio

Cariddi, e Scilla incatenò Peloro.


Perché ’n trofeo del lor più alto impaccio,

Qui s'avider, che stanche al gran lavoro,

Posò l'Arte la man, Natura il braccio.


Il sonetto, inserito in una sezione del libro che comprende anche rime amorose, eroiche (appunto la descrizione elogiativa di Messina che abbiamo riportato), lugubri, morali, varie, sacre, e pure frammenti e “canzuni” in siciliano, si trova all’interno di un’opera che, come avverte colui che ne curò allora la pubblicazione secentesca, presenta diverse imperfezioni nei testi, dato che il poeta non “poté dar l’ultima mano … per la sua poca salute travagliato sempre da dolori ipocondriaci”, ma anche a causa degli impegni di governo e della morte che lo raggiunse precocemente. 

Il componimento, che è possibile riconoscere come tipicamente barocco per la grafia, il lessico e le ripetute personificazioni delle immagini, colpisce non tanto per un elogio alla città che tanto piace al provincialismo che divora molti nostri concittadini, quanto soprattutto per una particolarità: l’elogio giunge da un cittadino di quella Palermo già da tempo allora in lotta con Messina per la supremazia nell’isola!

Alla Biblioteca Regionale di Messina, se ritiene ne valga la pena, il compito di aggiungere una nota esplicativa (o di correggere, se c’è, quella sbagliata) alle carte che accolgono il sonetto per evitare così l’errore di un altro studioso.


Felice Irrera


venerdì 22 gennaio 2021

UN GRANDE FILOLOGO DIMENTICATO. VALGIMIGLI E MESSINA

Nel febbraio di molti anni fa (era il 2003), ebbi occasione di presentare, nella biblioteca del Liceo “Maurolico” di cui ero allora responsabile, il carteggio ancora inedito tra Salvatore Quasimodo e Manara Valgimigli, curato da Peppino Pellegrino (poi scomparso il 4 aprile 2012, all’età di 89 anni), docente di lettere classiche e poi preside, credente convinto e intellettuale cattolico di alta statura, che diede vita alla casa editrice SPES, contribuendo con il suo sapere e le sue pubblicazioni alla conoscenza di tanti uomini di cultura a livello nazionale come Federico Sciacca, Filippo Bartolone, Vittorio Enzo Alfieri.

In quell’occasione, prima di cedere la parola al caro prof. Pellegrino, ebbi modo di illustrare brevemente la figura di Manara Valgimigli, uno dei tanti illustri docenti che diedero fama a quel Liceo “Maurolico” che, unico in Italia, reca il nome dell’illustre scienziato e che è pure il primo liceo classico nato nel territorio messinese.

Mi piace ricordare quanto allora dissi perché posso accomunare per un momento due di quegli uomini di alta cultura, di cui l’Italia in questo momento avrebbe tanto bisogno.

Così allora brevemente presentai la figura di Valgimigli:

È un vero piacere ricordare qui brevemente Manara Valgimigli, dotto filologo, fine esegeta, arguto narratore, un vero maestro, insomma, perché fu uno dei più illustri docenti del nostro Liceo e come pochi altri legato da vincoli d’affetto a Messina.

Laureatosi nel 1898 a Bologna, dove ebbe maestri, fra gli altri, Carducci e Gandino, venne poco dopo a Messina ad insegnare Lettere al Ginnasio pareggiato del Convitto “Dante Alighieri”, grazie alla segnalazione di Giovanni Pascoli che c’era lì bisogno di un insegnante. Durante gli anni di quel primo soggiorno nella nostra città frequentò spesso la casa del Pascoli, allora professore ordinario di Letteratura latina nel nostro Ateneo.

Nel 1904 Valgimigli lasciò Messina per insegnare a La Spezia e Lucera, ma alcuni anni dopo, nel novembre del 1909, ritornò volontariamente in città come professore di latino e greco al Maurolico, che naturalmente aveva subito la terribile distruzione del terremoto e aveva una sede baraccata. Così egli racconta quell’esperienza:

Avevo chiesto io di ritornare. “Stanno riaprendo il Liceo” mi dissero al Ministero. In realtà avevano appena incominciato a costruirlo. C’erano di gran travature, e palchi, e un andare e venire di falegnami, e pialle e seghe e martelli e trucioli e casse di chiodi; in una specie di stanza ancora senza finestre e col tetto non anche ricoperto, il segretario Felici aveva raccolto alla meglio quel che di registri e documenti aveva potuto salvare dal vecchio Liceo rovinato”1.

La Biblioteca del Liceo Maurolico oggi

Al Maurolico Valgimigli insegnò fino a tutto il 1913. Descrive in alcune vivaci pagine narrative la vita che allora visse “in baracca”. La moglie e la figlia lo aspettavano

verso mezzogiorno, fuori dalla porta di casa, nella strada. La vita di baracca era anche molto vita di strada. Mi venivano incontro col boccale dell’acqua, perché si andava insieme a riempirlo alla fontana per il desinare”.

Lì, in quella baracca di legno in fondo al Viale San Martino veniva a trovarlo Giorgio Pasquali, che poi sarebbe stato uno dei più illustri filologi italiani e che allora insegnava all’Università e lì s’intratteneva spesso con parecchi amici messinesi.

Valgimigli ritornò un’altra volta nella “sua” Messina nel 1921, come professore universitario di letteratura greca, rimanendovi fino al 1924, prima di continuare la sua carriera a Pisa, a Padova e poi a Ravenna, dove diresse la “Biblioteca Classense”. Concluse la sua vita in provincia di Bergamo nel 1965.

Forse nessuno dei forestieri ospitati dalla nostra Università o dalle nostre scuole conservò come Manara Valgimigli un ricordo di Messina così caro e costante verificabile da parole come queste:

Non sono legato a nessun’altra terra, a nessun’altra città, di così vivo e tenero amore come a questa. Tutte le tappe del mio mestiere di maestro di scuola le ho incominciate lì: dalla prima, quasi ragazzo, in un ginnasietto di collegio, fino all’ultima. Quivi nacque un mio bimbo: quivi crebbe una mia figliolina”2.

E più in là:

Il messinese schietto ha una sua aristocrazia che io non saprei in Italia ritrovar simile se non in qualche città del Veneto; non solo formale, ma signorile nell’intimo; e fastidio e ripudio assoluto di ogni pedanteria e grettezza; e in più una generosità che è propria del sangue siciliano, sostenuta da un senso superiore della vita, tra rassegnato e malinconico e amaro, il quale risale, credo, molto lontano, e forse muove dalla stessa sorgente a cui nutrirono il loro sorriso Socrate e i grandi sofisti”3.

Per queste parole, per l’affetto dimostrato nei confronti di Messina, per il suo impegno di maestro al “Maurolico” abbiamo voluto brevemente ricordarlo, giovandoci delle belle pagine scritte su di lui da Giuseppe Sciarrone, che nel 1961, in occasione del centenario della fondazione del “Maurolico”4.

Questa la mia rievocazione di allora.

Adesso, ad incrementare questo mio ricordo di un grande, mi vien tra le mani un articolo del giornalista Gigi Ghirotti, scomparso nel 1974, dal titolo “Un grecista in convento”, che tratta proprio di Valgimigli, il quale nel 1942 si trovava a Ravenna, dove quest’illustre traduttore dei classici viveva in una cella di antichi frati, inconsapevole che nel 1948, andato in pensione, sarebbe stato chiamato nella stessa città, per chiara fama, alla direzione, come già detto nella mia presentazione, della Biblioteca Classense, dove sarebbe poi rimasto fino al 1955.

Ghirotti ribadisce che fu proprio Pascoli, professore di latino all'Università di Messina, a chiamare Valgimigli, ancor fresco di laurea, nella città dello Stretto nel 1898, ad inse­gnare nel ginnasio della città sici­liana, aggiungendo il particolare che egli vi arrivò 

in vagone di terza classe, avvolto in un cappottuccio da pochi soldi, ricco di santi entusiasmi per la poesia”.

E continua ancora il giornalista, raccontando di lui nuovi particolari:

 “L'a­micizia con Giovanni Pascoli diven­ne affettuosa intimità. Nel poeta, già affermato per le sue poesie italiane e già premiato ad Amsterdam per i poemetti lati­ni, rimaneva il rimpianto di non poter dedicare più tempo allo stu­dio dei poeti greci, e di questo ram­marico parlava spesso al giovane Valgimigli. Il quale un giorno, usci­to da lezione, annunciò al Pascoli: «Mi do al greco. Ho deciso». Da quel giorno incominciò il grande ciclo della revisione critica dei te­sti classici e della moderna inter­pretazione del mito ellenico: di que­sta fatica, durata mezzo secolo, la scuola italiana è stata testimone (...). A 76 anni, senza più nessuno al mondo, il vecchio professore conti­nua a leggere e a vivere accanto ai suoi poeti (...). Non più scolaresche inquie­te gli sono affidate, ma grandi sale mute, odorose di libri, stipate di libri. Con un mazzo di chiavi alla cintola, vestito di un camice bian­co, Manara Valgimigli, simile ad un candido priore camaldolese, passeg­gia in quel suo regno assorto; due volte al giorno va a visitare le celle, fitte di codici e volumi secolari”.

A proposito della sua traduzione dei Carmina di Giovanni Pascoli (Milano, 1951), Ghirotti recupera, infine, nel suo articolo, ancora un gustoso aneddoto, riguardante indirettamente Messina:

 “Talvolta, le incertezze non lo lasciavano dormire. Per esempio, un verso latino del Pa­scoli parlava della "rugiada della barchetta". Fatto appello a tutte le risorse della filologia, il rompicapo rimaneva tale e quale: che cos'ave­va voluto dire il poeta? Finalmen­te, come per un'improvvisa illumi­nazione, Valgimigli ricordò che spesso il Pascoli nelle sue passeg­giate serali a Messina gli aveva in­dicato la luna chiamandola "la bar­chetta" o anche "la navicella del cielo", per la sua forma arcuata. E venne facile allora la traduzio­ne: "la rugiada lunare".

 E venne facile allora la traduzio­ne: "la rugiada lunare".

Sarebbe troppo chiedere che a questo illustre filologo, che diversi anni dimorò nella nostra città, impartendo la sua vastissima dottrina a studenti liceali del prestigioso “Maurolico” e ad universitari e citò più volte con affetto Messina nelle sue opere, fosse intitolata almeno una strada?

Felice Irrera

1 M. Valgimigli, Il Mantello di Cebète, Milano, 1952, p. 53.

2 Ibidem, p. 54 sgg.

3 Ibidem, p. 55

4 Cfr. G. Sciarrone, Il Liceo-Ginnasio “Francesco Maurolico” di Messina, Messina, 1961, pp. 139-142.

sabato 2 gennaio 2021

PRIMA E DOPO IL 28 DICEMBRE. ATTORNO AL MONUMENTO


Questo articolo è stato scritto a metà dello scorso novembre ed è rimasto nel cassetto. L’autore, l’ha ritirato fuori dopo una nuova passeggiata negli stessi luoghi il 29 dicembre ed ha notato che le aiuole attorno al monumento ai marinai russi erano state ripulite. Va da sé che la spiegazione che ci si è dati è che il giorno prima, come consueto, si era svolta la cerimonia commemorativa con la deposizione di una corona di fiori da parte del sindaco in collaborazione – come si legge in tutti i comunicati ufficiali – con il consolato onorario russo; ma sembra che il console, l’onorevole Giovanni Ricevuto, non si sia fatto vedere… Se così fosse, le parole e le tesi dell'autore risulterebbero ancora più calzanti


foto scattata il 15 novembre 2020



foto scattata il 29 dicembre 2020







Passeggiando per Messina

Come non pensare, in questo primo (e si spera ultimo) anno dell’era Covid, ad una bella passeggiata nel piacevole sole di una giornata autunnale della città dello stretto?

Ed eccomi prima ad osservare beato, nonostante la mascherina, il mare tranquillo in un’aria priva di vento; poi notare chi corre un po’ o passeggia come me per dimenticare l’angoscia dell’epidemia; e infine riprendere la strada di casa, passando per la villetta che ospita, sul torrente Boccetta, il bel monumento “Ai Marinai russi”, inaugurato il 9 giugno 2012, per i soccorsi portati da essi, che il 29 dicembre 1908 giunsero, con le unità “Admiral Makarov”, “Giljak”, “Koreec”, “Bogatyr”, “Slava” e “Cesarevic”, per portare i primi soccorsi alle persone intrappolate sotto le macerie delle abitazioni crollate appena un giorno prima.

Giro intorno al monumento, ammirandone il commovente realismo.

Ricordo che esso non fu eretto, come si potrebbe pensare, a spese del Comune (che mise solo a disposizione lo spazio verde), ma per volontà dei Russi e, in particolare, grazie al finanziamento della Fondazione Sant'Andrea, in collaborazione con il Centro della Gloria Nazionale e il Fondo Internazionale delle Lettere e della Cultura slava: non posso fare a meno di dispiacermi ancora dell’operato di una città che, dopo più di un secolo, non è riuscita a dare corso a quella che fu proprio la prima delibera della prima seduta del Consiglio comunale della città distrutta (17 febbraio 1909), che prevedeva, appunto, l’erezione di un doveroso monumento a quei marinai.

Il bronzo dell’opera, che fu realizzata su un bozzetto dello scultore italo-russo Pietro Kufferle del 1911, mostra di essere trascurato: molte sono le macchie e s’intravedono anche delle fessure alla base. Ma colpisce certamente ancora di più chi guarda il contesto in cui esso è situato il completo abbandono in cui versa lo spazio un tempo verde, ora pieno di sterpaglie.

Alla cerimonia dell’inaugurazione del monumento, tra le molte autorità italiane e della Federazione Russa, fu presente l’allora presidente della Provincia Nanni Ricevuto, che presto avrebbe ottenuto lo status di console onorario a Messina, divenendo, insomma, uno dei magnifici 530 che figuravano, al 25 settembre del 2019, nell’elenco approntato all’epoca dal nostro Ministero degli Esteri: il medesimo era pure lì segnalato in carica dal 10 maggio 2016 al 9 maggio 2021.

Come tale, da allora questo politico di lungo corso, si è distinto in alcune cerimonie ufficiali e ha persino avuto l’onore di far inaugurare ufficialmente, nel maggio 2018, all’Ambasciatore Sergey Razov la sede del Consolato Onorario che avrebbe dovuto rappresentare un punto di riferimento importante per i russi residenti nella città di Messina e nella sua provincia (alcune centinaia) oltre che per i numerosi turisti in visita.

Non disponendo di statistiche, non sappiamo quante decine (forse centinaia) di persone si siano rivolte, traendone beneficio, all’onorevole, ma semplicemente con una breve ricerca su internet abbiamo appreso che l’indirizzo del Consolato è sito in via Regina Elena 6, 98158, Faro Superiore (sic!), Messina e che la sua sede operativa si trova in Corso Cavour 77, indirizzo quest’ultimo che corrisponde a quello dell’Università telematica Pegaso, di cui lo stesso ex-onorevole risulta responsabile delle Relazioni Internazionali: quanto all’e-mail alla quale abbiamo scritto per attingere informazioni (info@consolato-onorariorussiamessina.it), ci è ritornata indietro inevasa.

Insomma, tutto ciò fa pensare che la reperibilità e quindi l’attività consolare sia stata piuttosto scarsa, a dispetto delle aspettative dell’ambasciatore Razov. Viene da chiedersi se i Russi abbiano il desiderio di riconfermarlo nell’incarico in una città così emblematica e storica per le relazioni tra i due paesi. Aspettiamo con curiosità il maggio dell’anno imminente

Ciò che, invece, non può davvero aspettare perché costituisce una vera vergogna è lo stato in cui versa il verde che circonda il monumento. Osservando i cartelli ancora presenti nelle aiuole, sembrerebbe che non debba essere il Comune a pensarci: in una grande targa a bella vista si legge che il consolato onorario e il centro “MIR” (associazione fatta nascere e promossa dallo stesso Ricevuto) si prendono cura del verde di “questo” luogo. Sarà!

Ci aspettiamo un gesto di orgoglio e di riscatto da parte del console, almeno prima di maggio, prima che il suo mandato giunga a scadenza.

novembre, 2020

Felice Irrera

Post scriptum della Redazione. La pulizia delle aiuole, verificata il 28 dicembre successivo, giorno della commemorazione, è stata opera di chi? L’assenza del console onorario all'annuale cerimonia fa sorgere qualche ragionevole dubbio che il “gesto di orgoglio e di riscatto” sia da attribuire ad altri.