sabato 22 maggio 2021

DI PASSAGGIO A MESSINA: UN’INTRIGANTE PRESENZA FEMMINILE

Tra libri e giornali alla ricerca di un’ombra


  La moda negli anni venti del Novecento

Sul giornale di Messina “La sera” del 4 luglio 1924 si ritrova la seguente notizia:

Proveniente da Napoli, si trova da più giorni nella nostra città la Contessa del Viminale, la quale, a quanto ci risulta da fonte ineccepibile, è stata vista fino a ieri sera a passeggiare sul viale S. Martino, al braccio di uno studente della Scuola Superiore di Nautica e pedinata a distanza da alcuni agenti di P. S.

La Contessa, fuggita da Roma, si sarebbe incontrata a Napoli col suddetto studente, e da questo incontro ne sarebbe nato un dolcissimo “flirt” che ha avuto il suo pieno rigoglio sotto il nostro bel cielo.

L’idillio sarebbe durato ininterrottamente per 72 ore, ed indi cessato per l’improvvisa partenza del damo.

Alla bionda incantevole Contessa dal mirabile corpo alto, robusto e flessuoso, e che forse ancora è nostra ospite, il saluto del... Viminale!”

Sullo stesso giornale, poi, pochi giorni dopo (9 luglio), ecco un’altra notizia:

Ci perviene a firma G. S, una lettera con la quale si lamenta l’equivoco della identificazione da parte di taluno della famosa Contessa del Viminale in una stimata gentildonna del mondo romano, ospite ancor oggi della nostra città.

Teniamo ancora una volta a dichiarare che restiamo assolutamente estranei a tutte le supposizioni e le ipotesi azzardate in proposito dal pubblico, che sono evidentemente il prodotto della appassionata fantasia popolare”.

Certamente queste due brevi notazioni non potrebbero colpire più di tanto se dalla data del giornale non fosse subito stato chiaro che erano proprio i giorni di quel delitto di cui più tardi Benito Mussolini si sarebbe assunto la responsabilità “politica, morale e storica”: il rapimento di Matteotti, a cui seguì, come poi si saprà, il suo assassinio, avvenne, infatti, il 10 giugno, ma il corpo sarà ritrovato solo il 16 agosto.

Degli avvenimenti che accaddero tra queste due date è ormai testimone la storia, mentre quest’ultima nulla riporta, se non in qualche articolo di giornale, qua e là, riguardo a questa “Contessa del Viminale”, segnalata anche a Messina. E appunto sui giornali ne abbiamo cercato le tracce.

Stabilire chi fosse, come si vedrà, non è facile, ma l’epiteto che accompagna questa presunta sua nobiltà suggerisce la frequentazione di un edificio, il Viminale, che già da molto tempo ospitava il Ministero degli Interni, di cui era titolare lo stesso Mussolini, che però il 17 giugno 1924, quindi in piena bufera per via delle indagini in corso sul caso Matteotti, aveva lasciato la carica a Luigi Federzoni.

Da qui a pensare che la “contessa”, forse di passaggio nella nostra città, fosse legata a qualche gerarca fascista e che ricoprisse qualche ruolo non ufficiale il passo è breve.

Qualche tempo dopo di lei ci parla un bozzetto teatrale di Carlo Tresca (oppositore del fascismo e sindacalista emigrato negli Stati Uniti nel 1904 e qui ucciso nel 1943 da un sicario della mafia), dal titolo “L’attentato a Mussolini ovvero il segreto di Pulcinella”, che fu rappresentato per la prima volta presso la Music Hall di New Haven nella serata del 30 gennaio 1926 e poi dato alle stampe nello stesso anno dall’Editrice "Il Martello" di New York. È questo un esempio di teatro anarchico che ha per soggetto l’attentato a Mussolini, a Roma, nel novembre del 1925, dell’ex onorevole Tito Zaniboni. In quest’operetta (la cui rappresentazione, per via dei gesti di un buffo Mussolini, fece ridere i giornalisti americani e gli stessi ufficiali di polizia presenti, che pur non comprendevano alla lettera quello che si recitava), ecco comparire, appunto, come personaggio, la “Contessa”, che così ha finalmente un nome (vero o falso che sia), quello di Noli da Costa, in veste di amante sia di Farinacci (come si sa, sostenitore di una visione intransigente e radicale del fascismo) che di Zaniboni.

Secondo l’autore del libro “I tentacoli dell’OVRA. Agenti, collaboratori e vittime della polizia fascista” (Torino 1999), la contessa sarebbe stata in rapporti intimi oltre che con Zaniboni anche con lo stesso Mussolini. Ma anche Emilio De Bono, quadrumviro della marcia su Roma, nonché comandante della Milizia fascista, che era a capo della polizia nelle prime indagini sul rapimento Matteotti, ma poi sollevato dalla carica, sarebbe stato circuito dalla “Contessa del Viminale”, da altri identificata in una certa contessa Amari, che girava con due cani pechinesi e un accompagnatore, la cui relazione, vista l’età del generale, era oggetto di pettegolezzi: così scrive Antonio Portobello (Il delitto Matteotti, https://antonioportobello.wordpress.com).

Fin qui, cercando di identificare l’oggetto anonimo degli articoletti della “Sera”, ci siamo imbattuti, prima, in una nobildonna di nome Noli da Costa, poi ancora in una contessa Amari.

Ma tornando al delitto Matteotti, che fece vacillare il fascismo, naturalmente quelli successivi al rapimento furono giorni di fuoco per i giornali che si occupavano degli eventi che precedettero il ritrovamento del corpo di Matteotti il successivo 16 agosto: mentre le indagini erano in corso, le notizie si susseguivano e in alcune di esse si ritrova ancora questa contessa.

Così scriveva, infatti, il 3 luglio 1924 il quotidiano “Il Sereno”, in un articolo riportato pure quasi integralmente, citandone la fonte, nello stesso giorno, dal “Corriere della Sera”, in cui ritroviamo, assieme ai nomi di coloro che risultarono poi artefici del rapimento e dell’uccisione del deputato socialista, l’interrogatorio di un’elegante donna molto nota negli ambienti mondani di Roma: il titolo del pezzo è, ancora una volta, “La Contessa del Viminale”:

    Copertina di un libro francese su Mata Hari

Non è il titolo di un film, ma è quello che riguarda una nuova Mata-Hari, la quale fino a ieri ha potuto dominare nettamente negli uffici del Viminale e specialmente nella direzione generale di P. S. Non sappiamo se la magistratura, incaricata di scoprire i mandanti dell’assassinio dell’on. Matteotti, conosce la storia fosca di questa femmina, che in un decennio ha saputo svolgere, in tutti gli ambienti politici, un’azione varia.

Certamente questa donna, che ha avuto protezioni altissime, deve conoscere molti retroscena di ciò che si è svolto in questi ultimi tempi al Viminale.

Non vi è stato processo di corruzione, di truffatori di banche, di delitti in cui il suo nome non sia comparso fugacemente. Durante l’imperio di Cesare Rossi e del gen. De Bono, questa donna ha saputo imporre la sua volontà nettamente.

Esiste in Questura un dossier gravissimo a carico di questa strana donna per l’opera prestata durante la guerra per... esonerare i combattenti pavidi. Le relazioni e le protezioni di questa donna sono innumerevoli: dalla spia al delinquente volgare, dal biscazziere al generale, dalla cocotte di infimo ordine alla dama eletta. Ogni amicizia era per lei un’arma; e si deve a questa moderna “Mata Hari” – a tempo però faceva la spia a danno di insospettabili ufficiali dei carabinieri e di ufficiali della milizia! – se la banda dei biscazzieri riuscì ad imporre un progetto così ignobile da suscitare la nausea e lo sdegno generale.

Questa femmina, chiamata “la contessa del Viminale”, era amica di Cesare Rossi, di Dumini, di Volpi e di altre personalità che ancora godono fiducia.

Anche lei sosteneva nei corridoi del Viminale che l’opposizione doveva essere soppressa: anche lei affermava che gli unitari rappresentavano un pruno nell’occhio del partito fascista.

Apparteneva alla banda del Brecche ed era amica di alti personaggi del fascismo; come va che il magistrato inquirente non ha chiesto informazioni su questa donna che vantava nei salotti di possedere il cuore, sempre tenero, di un personaggio non del tutto oggi liquidato? La banda del Brecche ancora non è stata dispersa. Troppi personaggi, colpevoli moralmente e indirettamente dell’assassinio dell’on. Matteotti, ancora girano in automobile e frequentano il Tabarin, il Bragaglia e la Casina Valadier. Fino a quando?”.

Ma chi erano Cesare Rossi, Amerigo Dumini e Albino Volpi, tutti coinvolti nel caso Matteotti?

Rossi era il capo dell’Ufficio stampa del Presidente del Consiglio; Amerigo Dumini un ex-ardito, noto squadrista fiorentino e uomo di fiducia di Rossi; Albino Volpi, un falegname pluripregiudicato, presidente della sezione arditi fascisti di Milano, molto stimato dallo stesso Mussolini per la sua assoluta fedeltà e per la sua mancanza di scrupoli nella lotta contro i sovversivi. 

E la cosiddetta “banda del Brecche”?

Comprendeva, appunto, gli elementi sunnominati che spesso di riunivano presso il ristorante “Brecche”.

La contessa, ancora una volta qui anonima, sembra far parte dunque di qualcosa di molto grosso, addirittura, s’ipotizza, coinvolta nell’affaire Matteotti!

Un paio di giorni dopo, il 5 luglio, così scriveva un altro quotidiano, “La Giustizia” nel brano di un articolo che reca al suo interno il titoletto “La contessa parla”:

A proposito di De Bono vi abbiamo segnalato una conferma... autorevole dei suoi rapporti di conoscenza con la ormai leggendaria contessa del Viminale. Le indiscrezioni che sono state fatte dai giornali di questa donna hanno fatto sì che il suo nome corre sulle bocche di tutti. Tutta Roma sa a chi si allude col nome romanzesco di Contessa del Viminale, tantoché un redattore del “Giornale d’Italia” si è recato a intervistarla.

La Contessa abita in un elegante apparta­mento di uno dei più sontuosi palazzi al via Nazionale. Nacque in Toscana da ge­nitori appartenenti a quella aristocrazia, maritata ad un valoroso e probo generale dal quale però vive legalmente separata. Il salotto della Contessa era, prima delle ri­velazioni di questi ultimi giorni, molto frequentato da personalità mondane e po­litiche. Ora il salotto è deserto. Secondo un giornale meridiano non si aprirà più a quell'alta personalità fascista ancora in carica di cui si parla tanto e che tutti possono facilmente individuare. La casa è piantonata da agenti di P. S. La signora si trattenne col giornalista sul modo con cui ha conosciuto il generale De Bono.

Si trattava di recuperare una grossa somma di denaro. Per questo si ebbe a rivolgere al generale a cui fu presentata da un comune amico.

- In un anno e mezzo - ha soggiunto - non più di quattro o cinque volte sono stata a Palazzo Viminale e soltanto sempre per essere ricevuta dal Generale De Bono che si interessava di me. Non vi ho co­nosciuto nessun altro; non ho mal visto né il comm. Rossi né il comm. Moroni ap­partenenti al gabinetto dell’on. Finzi. Se ritornai dal generale De Bono, oltreché per il recupero dei miei denari fu anche per colpa del mio chauffeur, Raffaele Conti, che dovette fuggire all’estero per essere implicato nello scandalo degli chèques fal­si. In quell'occasione mi trovai in forte contrasto col delegato Neri, ma ripeto, le mie visite al Viminale sono state rarissime”.

E questa essendo la verità come spie­ga - ha chiesto il giornalista - le asserzio­ni dei giornali apparentemente minute?

- E che le posso dire io?

-Hanno anche detto che io mi abbandonavo, ad orge in certi luoghi di convegno notturno. Ebbene in quei luoghi io non sono mai stata, mai una volta sola. La mia vita è corretta, forse subisco la disgrazia dell'omonimia con due giovani isolane che sono, pare, allegre e note. Riconosco però con l'abituale sincerità che la leggenda dei miei rapporti amichevoli col generale De Bono era già diffusa, tanto che effettivamente alcuni sconosciuti biscazzieri vennero da me per raccomandarmi le loro richieste. Inutile aggiungere che furono messi alla porta. Non io ero donna da accettare compensi e neppure trattative del genere. Del resto c’è qualche signora titolata che veramente - a quanto potei constatare - capitava spesso al Viminale; forse sono stata confusa con lei”.

Conclusione, almeno secondo essa recisamente afferma, la contessa che abita in via Nazionale non è quella che frequentava la Direziona Centrale di P. S.

Se ce n’è un'altra la cerchino”.

Anche in questo caso, come si vede, nessun nome è attribuito alla titolata (che però a Roma tutti sapevano chi fosse!), ma si dà l’indirizzo e si ammettono, da parte dell’intervistata, i suoi buoni rapporti con De Bono. Secondo l’intervistata, poi, c’è un’altra donna che frequentava assai più assiduamente di lei il Viminale.

Vien da dire: quante donne! Oppure una sola? Ma quale?

Giuseppe Pardini, professore di storia contemporanea all’Università del Molise, in un’intervista, a cura di Francesco Algisi (pubblicata su archiviostorico.info il 10 aprile 2010), riguardante i rapporti tra Farinacci e Mario Giampaoli, segretario federale dal 1923 al 1928 del fascio di Milano, introduce un’altra identità per questa misteriosa contessa, proprio trattando della sua uccisione avvenuta un paio d’anni dopo il delitto Matteotti. Su di essa si sofferma dicendo:

L’assassinio della signora Erminia Ferrari (già moglie di un importante industriale cinematografico), detta anche la “contessa del Viminale”, avvenuto a Milano nel febbraio 1926, è ancora oggi un mistero. Le indagini di polizia vennero effettuate solo parzialmente e si considerarono esaurite allorquando presero la direzione del figlio Renzo Pettine, il quale venne accusato di omicidio e rinchiuso subito in manicomio criminale. Eppure quell’assassinio poteva avere tutti i contorni di un delitto politico, perché si diceva che la donna fosse stata a giorno di numerosi retroscena e che avesse annoverato tra i suoi amanti personalità di spicco del fascismo, come Cesare Rossi e lo stesso Farinacci. Certo era che la donna aveva cercato di contattare sino all’ultimo proprio l’allora segretario del PNF, Farinacci, per fargli avere importante documentazione. A quei documenti sembrava fossero interessati anche Giampaoli e lo stesso Arnaldo Mussolini, che la polizia politica aveva persino individuato come la persona che aveva visto per ultimo la Ferrari ancora in vita. Ma certo quel delitto rimane ancora oggi uno dei - tanti - gialli irrisolti della politica italiana”.

Per la cronaca, Renzo Pettine, figlio del commendator Giovanni (un cineasta ben noto all’epoca del cinema muto), fu condannato per il suo matricidio, di cui si occuparono all’epoca giornalisti, storici, criminologi e scrittori a 15 anni.

   Greta Garbo in un film su Mata Hari
Alessandra Gioielli, grazie ad articoli di giornale, documenti e appunti del proprio padre, riporta (in isnews.it 27 febbraio 2021) interessanti notizie su Renzo Pettine e su sua madre Valeria Erminia Ferrara (e non Ferrari). Valeria, che usava però il suo secondo nome, Erminia, aveva conosciuto il marito a Milano, mentre questi vi svolgeva il servizio militare e lì andò a vivere coi figli Renzo e Jole. Poi i coniugi si separarono nel 1912 e lei si trasferì in un appartamento di corso Buenos Aires, sempre a Milano, col figlio, mentre la figlia fu posta in collegio. La donna era avvenente e incline alla mondanità e Renzo, probabilmente, durante la fanciullezza e l’adolescenza dovette “soffrire per la condotta moralmente disinibita della madre, che aveva in casa frequenti incontri con amanti più o meno occasionali”, il che, secondo quanto da lui dichiarato al momento dell’arresto, lo spinse a sparare alla genitrice per “vendicare l’onore della famiglia”. Da dichiarazioni rese in tribunale e poi resocontate da vari giornali emergono vari elementi a discolpa: “la malattia del lusso e della mondanità” nata in colei che “non era una madre: era un demonio”; certi “episodi di furia contro il figlio” da lei compiuti; “l’abbandono in cui Renzo fu lasciato fin da quando fu a balia”.

Ma non mancano ritratti anche molto diversi del matricida: il giovane “viveva a Milano da gran signore”; gli piaceva girare in camicia nera con pistola e pugnale; non praticava alcuna professione. Fatto sta che, dopo quattro anni di detenzione, Renzo Pettine fu scarcerato e si rifece una vita “normale”, fino alla morte avvenuta nel 1966.

In quest’ultimo articolo non si fa affatto cenno della Ferrara come della “Contessa del Viminale”, ma la concomitanza con quanto dice precedentemente Pardini e gli elementi a discolpa del figlio matricida emersi nel processo ne fanno un ritratto certamente plausibile di quella “femmina” (come la definisce “Il Sereno” al tempo del delitto Matteotti, pur senza perfettamente individuarne il nome), che, secondo tante altre testimonianze, si aggirava nelle stanze del potere del duce in un periodo per lui così difficile. Il fatto che quasi sempre se ne parli anonimamente e in qualche caso attribuendole identità diverse (Noli da Costa, Erminia Ferrari o Ferrara), concordanti, comunque, sulla sua avvenenza e, in diversi casi, sulle sue frequentazioni, anche se da qualcuna di queste “dame” smentite, c’induce a pensare che non un’unica “Contessa” fosse solita frequentare quell’edificio che avrebbe dovuto simboleggiare l’emblema dell’ordine e della sicurezza e che invece ben si prestò, come la storia ha ormai dimostrato, alle nefandezze e sconcezze di un regime fascista allora solo agli albori.


Felice Irrera





venerdì 7 maggio 2021

CONCRETA PRESENZA NELLA POESIA CONTEMPORANEA

Lo scavo nel mistero della vita di Marisa Pelle


Pensiero, luce ed ombra, memoria, musica e la parola che tenta solo di “trattenere/le pagliuzze d’oro frammiste/a fango” che la vita pur dona, attraverso i suggerimenti di opere d’arte degli artisti più diversi, capaci di indicare alla sensibilità del poeta non la strada da percorrere, poiché l’esistenza è “estasi e mistero intraducibile/in un baluginio di nebbia”, ma di ritagliare al tempo “scampoli di luci ed ombre” e di cogliere “cartigli di vita”, anche se alla parola non è concesso “dire/se non per frammenti” ed essa “s’inerpica sul ciglio della strada” e “si fa ala all’umana/finitudine”.

Crediamo sia questa la poetica che emerge ora, più che mai chiara, dal lungo e coerente itinerario da più di trent’anni ormai costruito con acuta sensibilità nelle sue varie sillogi da Marisa Pelle da una posizione appartata, ma forse proprio per questo indenne da mode passeggere. 

Ed eccola offrire ora agli appassionati di poesia la sua ultima creatura, “Lungo il peribolo” (Besa, 2021), che reca un’ampia prefazione di Merys Rizzo.

Si tratta di sessantaquattro liriche che già nel titolo (il “peribolo” è il sacro recinto degli antichi templi) indica una chiara continuità con la precedente produzione, perché è proprio la concezione, chiara nell’autrice, della sacralità della parola ad emergere ancora una volta.

E una volta di più questa visione si esplica grazie ad un lessico prezioso, ricercato, diremmo quasi distillato, che attraversa tutte le liriche, in gran parte ispirate dalla visione di opere d’arte di vari autori e Paesi.

È proprio qui che si esprime una straordinaria capacità poetica nel coniugare parola e materia artistica, toccando spesso vette che possono sembrare parnassiane, per quel tanto che lo scopo della scrittura, che è poi conforto nell’esistenza, sembra essere solo quello della bellezza. 

Ma non sono solo le architetture antiche, che hanno sfidato i secoli a suggerire immagini di sogno, ad intessere d’oro i ricordi di una classicità sempre presente, a dare agio alla memoria di oltrepassare il tempo, ma anche particolari opere di artisti moderni che, rivissute con ancora più moderna e soprattutto particolarissima sensibilità, colorano di trame sempre nuove le parole, alla ricerca di un significato e magari di un varco nella rete che ci avvolge:

Urna d’acqua alla vita mesce

la parola

che in un tempo sospeso recita

un assolo gravido d’immenso”

Il sole, la luce, col suo “fremito sublime” e coi suoi tagli, mentre ad essa si alternano le ombre, ci disegnano “funamboli in bilico sulla corda/della vita” che “per invisibili fili all’eterno/aneliamo”, mentre “fugge indistinta la sera degli anni/su ampie frange di crepuscolo”.

Freddo il sole del ricordo brucia” e l’esistenza non lascia che “schegge a scaglie”, “in un silenzio che è polvere/di anni”. Eppure, “discosta i rami ad uno ad uno/la parola/su profili lontani desueti/d’inedita bellezza”, “si fa ala all’umana/finitudine... /sul silenzio calcinato/d’una soglia/d’un muro di confine”.

Da un lato il poeta, dunque, ribadisce che “come i marinai delle barchette/alla deriva smarriti/scrutiamo tra i vortici/l’abisso di dolore di morte/sotto l’onda gigantesca che incombe”; perché è “estasi e mistero intraducibile/in un baluginio di nebbia/la vita” e “unici attori d’un carro di Tespi/sperso in un mondo che assiste/al suo frantume/scriviamo con inchiostro bianco”; ma, dall’altro, conferma anche in questa nuova silloge il conforto, se non la fede, che viene da una scrittura sempre preziosa, grazie ad una scelta accurata di vocaboli, talora arcaici, difficili o rari, alla ricerca sempre della pregnanza.

Oltre ai temi suggeriti quasi sempre dall’osservazione di preziose opere d’arte (da De Pisis a El Greco, da Van Gogh a Munch, da Magritte a Kandinsky, da Morandi a Monet e a molti altri); diversi spunti nascono, con eguale vibrante sensibilità, dall’osservazione della natura (il mare, il cielo, il vento, le piante, i fiori), dal ricordo di un amico scomparso, della madre, dei genitori, di migranti naufraghi, dei “Giusti dell’umanità”.

E intanto:

Si sottende inalterato un murmure

costante

il suono della vita”.

Un filo evidente lega la meditazione sull’esistenza, che è il motivo conduttore di quest’ultima silloge, alle precedenti raccolte, che anch’esse, con il loro registro sempre elevato, con l’osservazione non superficiale e fotografica, ma intensa e partecipata della natura, tesa alla ricerca dell’universale nel particolare, si volgevano costantemente verso una meditazione, ora più energica, ora quasi dolente, sull’esistenza e sul tempo, non mancando, per altro, di aprire qua e là alla storia.

D’altronde, lo stesso legame, scoperto ed evidenziato continuamente dall’autrice, tra poesia e arte, le consente ormai quelle pitture e architetture di parole che ella delinea nelle sue liriche.

E la poesia serve a Marisa Pelle per uno scavo non solo nella sua esistenza, ma in quella di tutti noi che, troppo spesso impegnati in una non-vita, sfuggiamo anche a pochi attimi di meditata osservazione ed ascolto di ciò che ci circonda.


Felice Irrera