giovedì 28 febbraio 2019

NOBEL ITALIANI CONTESTATI IN CASA

La baruffa tra Sinisgalli e Scheiwiller su Quasimodo, 
nel racconto di un testimone messinese

Nel 1959 non mancarono le polemiche suscitate dalla scelta dell'Accademia svedese, che incoronò col Nobel Salvatore Quasimodo, cioè il meno quotato all'interno della classica "triade" (con Ungaretti e Montale), che rappresentava, a parere dei più, il meglio della poesia italiana del Novecento.
Addirittura, il giorno dopo la premiazione, Emilio Cecchi firmò un elzeviro su “Il Corriere della Sera” (in cui Montale era responsabile delle pagine culturali) con un incipit destinato a far discutere: “A caval donato non si guarda in bocca”, criticando la scelta degli accademici di Svezia. Vero è che, in effetti, l'articolo, uscito in una domenica d'ottobre del 1959, dopo l'iniziale frase ad effetto, che fu poi quella che rimase più impressa nella memoria dei lettori, proseguiva non tanto avanzando riserve su Quasimodo, quanto esami­nando criticamente i criteri seguiti dall'Accademia Svedese per le Scienze nell'assegnazione del Nobel, che molto rara­mente era assegnato all'Italia per la "limitata diffusione della nostra lingua" e "lo scarso peso della nostra politica nelle relazioni internazionali"; tutti motivi, aggiungeva Cecchi, che "concorrono a spiegare la banalità, l'approssi­mazione, e abbiamo detto addirittura la incompetenza di certi verdetti". In sostanza, il critico era convinto che "se le scadenze di questi premi Nobel destinati all'Italia fossero state meno infrequenti, certe inesattezze di valutazione avrebbero avuto un effetto men crudo".
Però, la polemica, rinfocolata anche dalle dichiarazioni infuocate di Ungaretti, durò a lungo.
Se molti sono ancora coloro che ricordano questo dibattito, non altrettanti, certamente, sanno che anche ad Eugenio Montale toccò, quando nel 1975 anche lui ricevette il Nobel, una polemica di tal fatta, sia pure in misura ridotta, scoppiata su un periodico politico edito da Edilio Rusconi.  
Fu Leonardo Sinisgalli (1908-81), il poeta-ingegnere fondatore e direttore di una rivista di fama mondiale come "Civiltà delle macchine" (1953-59), che il 6 novembre 1975 diede fuoco alle polveri con un articolo durissimo, pubblicato sul "Settimanale" (di cui curava la critica d'arte da Roma), che metteva in luce tutta la sua indigna­zione di fronte al fatto che Montale avesse vinto un premio negato, ancora una volta, ad Ungaretti.
Molto pesanti erano le ironie e i pettegolezzi inseriti nell'articolo: il fatto che Montale recensisse certe edizioni perché corrotto dall'offerta di peperoni secchi sott'olio; o che osteggiasse i poeti ermetici impedendo loro l'ac­cesso alla pagina letteraria del "Corriere"; o che si fosse sposato per interesse; o, addirittura che mangiasse "la minestra di fagioli come un cane" e che piluccasse "il grappolo d'uva come una gallina, un acino dietro l'altro, frenetico".
L'uscita del pezzo provocò, all’epoca, l'indignazione di Vanni Scheiwiller, noto editore di deliziosi libri (scom­parso nel 1999), all'epoca anche lui critico d'arte del "Settimanale", che, amico di Montale, da Milano scrisse una lettera al direttore del "Settimanale", Ignazio Contu, per rispondere a Sinisgalli.
Sul numero del 26 novembre uscirono, però, solo poche righe di protesta, sicché Scheiwiller, insoddisfatto e abituato a far polemica per lettera (già nel 1964 ne aveva sostenuto una memorabile contro Diego Fabbri e "La Fiera letteraria"), lanciò una vera e propria campagna contro Sinisgalli, dopo che questi aveva rifiutato di rispondere ad una lettera ironica, quasi beffarda, che, tramite lo stesso Contu, Scheiwiller gli aveva inviato.
In pubblico, fino a quel momento, era trapelato poco, ma la polemica in privato divampò più che mai: da una parte tramite missive d'insulti inviate a Scheiwiller dai sostenitori di Sinisgalli e Ungaretti; e dall'altra con caustici commenti antisinisgalliani nei salotti letterari di Milano legati a Montale e frequentati da Scheiwiller.
Quello che, comunque, è assolutamente fuori dal comune è che quest'ultimo decise a un certo punto d'inviare a mille intellettuali italiani una risposta privata all'articolo antimontaliano, che riproduciamo integralmente, in cui fingeva di non credere, per una "questione di stile", che davvero l'articolo fosse stato scritto da "un poeta" e lo invitava a "smentire lo sconcio apocrifo", perché "non è da poeta, grande o piccolo che sia, scrivere cose tanto basse e turpi". Le citazioni virgolettate sono tratte da una lettera, datata 30/10/1975, che, con diverse correzioni fatte a mano (la versione a stampa è successiva), fu ricevuta, in anteprima da Giuseppe Miligi, notissimo operatore culturale di Messina, scomparso nel 2010, che ne ha lasciato traccia tra le carte dell’Archivio della Biblioteca dei Cappuccini di Messina. Ma ecco la

Lettera aperta per un apocrifo di Leonardo Sinisgalli

Caro Sinisgalli,
ho letto su "il Settimanale" del 5 novembre (n. 45) un arti­colo stralunato e da contestatore coi capelli bianchi (Non mi piace eppure esulto anch'io) che nonostante la firma non posso credere sia stato effettivamente scritto da te, un poeta. Questione di stile. In un primo momento ho pensato subito a uno scherzo atroce ai tuoi danni: come già capitò al povero Cassola che si vide pubblicato sul "Corriere della sera", col suo nome, un elzevirino melenso, quasi una paro­dia dello stile cassolesco.
Non era possibile se non a uno Pseudosinisgalli scrivere bassezze senza pari, senza il minimo rispetto per la vita privata, che va rispettata comunque, soprattutto da un poeta. Per fortuna è solo un tuo apocrifo là dove si legge di un Arsenio (alias Montale) non Astemio, di un editore che otteneva recensioni sul "Corriere" per due barattoli di pepe­roni secchi conservati sott'olio, di tic, di rosicchiamenti d'unghie, di un anellino al mignolo (che è poi la vera), di un Montale spiantato che riceveva l'elemosina dell'incarico al Vieusseux, di cose familiari e personali, di come mangiava la minestra di fagioli, e, alla fin fine, di un Montale peggio di Arpagone.
Che c'entra tutto ciò con la poesia di Montale? Affrettati, caro Sinisgalli, a smentire lo sconcio apocrifo: c'è da confondere il tuo bellissimo Furor mathematicus (Urbinati, Roma 1944) con un livido furore senile, con una invidia da provinciale, per fare il paio con quell' "ormai intronato" del falso Sinisgalli.

Affrettati a smentire l'irresponsabile apocrifo: impossibile che l'autore del Quaderno di geometria (1936), dei Ritratti di macchine (Edizioni di Via Letizia, Milano 1937), dei due libriccini pubblicati da mio padre e che ti diedero fama (18 poesie, 1936 e Campi Elisi, 1939) sia diventato così becero e ignorante da confondere Shakespeare con O'Neill. Difatti, il balordo libellista che usurpa il tuo nome, si ricordava vagamente di un infortunio giudiziario capitato a Montale: il Teatro dell'Università di Roma gli affidò la revisione della traduzione di Strano interludio, fatta, credo, da "una maestrina" e che poi pubblicò nella sua collana col solo nome di Montale, di qui la condanna formalmente esatta per plagio. Ma non certo per la bellissima versione montaliana dell'Amleto principe di Danimarca, tradotto per le scene italiane nel 1949 (ed. Cederna) e ristampato nel '71 dalla Longanesi. Smentisci, smentisci, smentisci: sei troppo intelligente per credere sul serio che almeno altri cinque poeti italiani viventi sono degni del Nobel (fisicamente morti Palazzeschi e Ungaretti, Noventa e Sbarbaro). L'apocrifo ignora, infatti, che il vero Sinisgalli è uno di quei poeti minori (autentici) che si pone dei limiti che ha.
Può non piacergli, sì, la poesia di Montale ma non sarebbe tanto sprovveduto da usare termini come "barocchetto curiale", "birignao", scrittura "alla diavola", "epigrammi agli infilascarpe e satire degradate" per quegli Xenia, mode­stamente stampati alla macchia, in prima edizione, da una piccola tipografia (C. Bellabarba) di San Severino Marche, da Montale stesso, nel '66, in 50 copie a spese dell'autore (lire 25.000): per noi fra le cose più alte che la poesia del '900 abbia consacrato all'amore per la moglie morta (che l'apocrifo invece insulta).
Caro Sinisgalli, vedi un po' tu di smentire lo Pseudosinisgalli perché non è da poeta, grande o piccolo che sia, scrivere cose tanto basse e turpi. Tu stesso hai presentato ai lettori de "il Settimanale" il tuo ultimo libro di poesie, Mosche in bottiglia (ed. Mondadori 1975) dove a pagina 58 c'è questo aureo epigramma che dedichiamo insieme all'apocrifo scellerato:
"Il carnefice deve aver talento."
Vanni Scheiwiller

Ebbi modo, a proposito di tutto ciò, di intervistare nel 2005, per la rivista “Pagnocco”, di cui allora ero direttore, proprio Giuseppe Miligi come testimone di tale aspra polemica, avendo egli conosciuto entrambi i protagonisti e potendo aggiungere altri particolari all’episodio.
Chi era Leonardo Sinisgalli?
Lo conobbi verso la fine degli anni Trenta al G.U.F. di Milano, in occasione di una manifestazione organizzata da Giancarlo Vigorelli e Vittorio Sereni per mettere a contatto gli universitari con le forze vive della cultura lombarda. Sinisgalli fu amico di Giovanni Scheiwiller (padre di Vanni), di origine svizzera, gestore a Milano, in Galleria, della libre­ria Hoepli e fu appunto Giovanni ad inaugurare la propria casa editrice, "All'insegna del pesce d'oro", con la pubblicazione delle 18 poesie di Sinisgalli. Vanni, dal canto suo, affermava che da piccolo era stato tenuto sulle ginocchia proprio dall'amico del padre e che conservava nel proprio archivio le prose di Horror vacui (edito nel 1945) del poeta con la dedica "A Vanni cresciuto bene".
Come mai Sinisgalli preferiva Ungaretti a Montale?
Me lo sono chiesto anch'io e ho trovato la risposta in un aspetto prima poco conosciuto della biografìa di Sinisgalli (che riguarda la sua frequentazione a Roma della libreria "Ferro di cavallo" di via Ripetta, diretta da Agnese De Donato), venuto fuori sulla rivista "Il Giannone", diretta da Antonio Motta, che ha dedicato l'ultimo numero del 2004 proprio a Leonardo Sinisgalli, di cui ha pubblicato scritti inediti composti tra il 1961 e il 1964. C'è sulla rivista, oltre a tanto materiale che illumina il rapporto del poeta con Roma e alla riproduzione delle pagine di un suo taccuino sul quale schizzava paesaggi e ritratti, un saggio del pittore Bruno Caruso che parla della loro frequentazione dei caffè Rosati e Canova, dei ristoranti Cesaretto e Manghi proprio con Ungaretti, di cui evidentemente Sinisgalli era amico e di cui apprezzava la poesia.
Come si spiega l'avversione manifestata da Sinisgalli nei confronti di Montale?
Carlo Rossella, su "Panorama" del 18 dicembre 1975, riassumendo quella contesa, riportò una frase dello stesso Sinisgalli riferita a Montale: "Per 30 anni ci ha lasciati nell'ombra. Era tutto lui, noi non eravamo nulla, pur non essendo dei cretini".
E Scheiwiller?
Era un uomo dai gusti diffìcili e dal carattere calmis­simo, editore di libri rari (fra l'altro, alcuni volu­metti di Montale, come "Diario 1971", "La poesia non esiste", "Accordi e pastelli", "Pastelli e dise­gni", "Seconda maniera di Marmeladov"). Sempre sul già citato "Panorama", Rossella riporta una sua frase assai pesante, secondo la quale Sinisgalli avrebbe scritto contro Montale "per invidia e per senilità"; e aggiungeva: "E pensare che nonostante tutto è un grande poeta. E purtroppo anche i grandi poeti invecchiano e Sinisgalli è invecchiato male".
Come si concluse la polemica Sinisgalli-Scheiwiller?
Di questo ho un ricordo personale vivissimo. Nel 1976 Scheiwiller venne in Sicilia per visitare una mostra di letterati-artisti che si teneva ad Acicastello, ma, fermatosi a Messina avendo perso il treno, mi telefonò chiedendo di vedermi. Io gli dissi che l'avrei accompagnato in auto alla mostra. Durante il viaggio, lasciò cadere, con la sua solita flemma: "Sai chi c'è tra gli espositori? C'è Sinisgalli". Arrivammo in ritardo, dopo che la mostra era già stata inaugurata e ci indirizzarono al ristorante dove gli espositori pranzavano. Appena entrati, ci trovammo di fronte proprio Sinisgalli, che si alzò, venne incontro a Vanni e lo abbracciò dicendogli: "Me l'hai fatta grossa!". Vanni chiese se lo avrebbe preso a calci [Sinisgalli, secondo quanto scritto su “Panorama” dell’11 dicembre 1975, p. 117, aveva ipotizzato solo un anno prima una tale fine, piuttosto violenta, della polemica, dicendo:"Io vado a Milano, aspetto Scheiwiller sotto casa e gli do un calcio nel didietro"] e Sinisgalli concluse: "Dovevo pur trarmi d'impaccio rispondendoti!".
Così, tutto finì. Più tardi, dalle pagine de "Il Sole 24 Ore" del 24 luglio 1988, Scheiwiller definì Sinisgalli "un sacrificato della poesia del Novecento", auspicando che fosse finalmente resa giustizia "al poeta ingegnoso di "Civiltà delle macchine", al "fedele alla matematica/come/euristica", al poeta sommerso e sommesso che, quando riesce, sfiora la perfezione di un poeta della Magna Grecia".
L'amicizia aveva davvero avuto la meglio sulla polemica.

Felice Irrera

martedì 12 febbraio 2019

L’AVVENTURA POETICA DI MARISA PELLE

Quella inconfondibile voce nel panorama letterario della Città dello Stretto

Conobbi per la prima volta la poesia di Marisa Pelle leggendo le trentadue liriche di Fiore di cactus (1987), che recava in copertina un’acquaforte di Togo. Mi colpirono allora le parole iniziali che le introducevano:

Anche nel deserto può nascere un fiore. Nessuno è così povero da non potere generare la vita, non quella biologica, ma quella interiore. È lì che vivi la tua libertà, la sete di cieli e spazi infiniti, la tua ascesa a vette sublimi, immacolate, eterne, dove il candore ti acceca per farti vedere quel che occhio umano non vede, l’Eterno, quel che rimane della tua vita, sospesa nel buio di grigie giornate in una nera, atroce malinconia. È lì che il tuo pensiero vince la monotonia del quotidiano con i suoi slanci arditi, con l’ansia di conoscere, di dare vita al nuovo. Che ricchezza la vita!”

Lessi, poi, con piacere quelle liriche, notando in esse una stretta rispondenza con quelle parole introduttive: pur piene di una malinconica dolcezza, già allora sembravano in grado di afferrare quell’etereo e irreale che la natura ci offre, se siamo capaci di coglierlo, nei suoi molteplici aspetti prima di ritornare al prosaico e al quotidiano, che non ci permettono se non di sfiorare solo la vita:

Ti raggiunge/ poi scivola via/ e tu la vedi/ spumeggiare,/ frangersi/ e poi di nuovo ritornare,/ ma ti lasci/ appena sfiorare./ E così,/ lentamente, /ti passa accanto/ la vita.

Ma anche scorsi in quei versi la religione della famiglia, la fede e la speranza dell’Eterno, l’anelito, appena accennato, ad una grecità lontana eppur resistente al tempo, la lotta contro un’indifferenza e una meschinità che uccidono la vita per proseguire, nonostante i numerosi orrori della storia, il proprio cammino, alla ricerca di “attimi intensi”, in mezzo a tanti silenzi.
Non recensii allora quella silloge che molto mi attirò perché, non essendo ancora giornalista, non disponevo degli spazi necessari ad esprimere il mio apprezzamento per una sensibilità così lieve e profonda. Ma dopo di allora, seguii lo svolgersi del suo iter poetico, sul quale potei poi esprimere più volte, sulle pagine di un settimanale libero come “Centonove”, il mio sentire, constatandone via via, pur nella varietà dei temi, l’unitarietà di fondo, trovando manifestata, in quel canto elegiaco limpido e chiaro, una sensibilità poco comune e individuando, già allora, alcuni di quelli che avrebbero costituito, nel seguito della sua avventura, i motivi-chiave della sua poetica: la vita, il tempo, la luce, il silenzio.

Ecco che, esaminando insieme le due successive sillogi, “Scagliosi silenzi” (1991) e “Fatamorgana” (1996), non potei che cogliere subito un chiaro legame di continuità con Fiore di cactus.
Come già al suo esordio letterario, le quarantadue liriche di “Scagliosi silenzi” e le trentanove di “Fatamorgana” evidenziavano, infatti, un attento e partecipe scavo nella propria anima dell’autrice, la quale restituiva le sue riflessioni con l’utilizzo di un registro elevato che ne poneva in risalto la cura e la padronanza dei mezzi espressivi, nelle parole e nei ritmi. Quanto alla sua cifra stilistica, quasi tutte le liriche si fondavano ora su un contrasto di immagini e sentimenti.
Così, antico e nuovo, certezze e parvenze, luce e tenebre, amore e dolore, vita e morte, voci e silenzi si fronteggiavano in “Scagliosi silenzi”, spesso nel quadro di paesaggi marini evocati nei loro vari aspetti ad incorniciare emozioni ora tenui e dolci, ora malinconici e tristi, mentre alle certezze sperate si opponevano sogni, parvenze ed ombre. Ed efficace appariva questa scrittura, attenta a cogliere con essenzialità efficaci analogie:

Diseguale/ primeva/ a ciascuno/ s’arrocca/ la sua pena”.

Non diversa sensibilità e analogo stile mostravano le altrettanto brevi liriche di “Fatamorgana”, che nel titolo adombrava una sorta di collegamento ideale tra le origini calabresi dell’autrice e la sua residenza professionale d’insegnante a Messina. Anche qui vita e tempo, luce e silenzio, desiderio appena accennato di volo, esemplificato nell’immagine ripetuta del gabbiano, emergevano come motivi-chiave della raccolta, ma le singole poesie facevano leva, poi, quasi sempre, sul motivo della contrapposizione. Ed ecco un’alba “primordiale, edenica irreale” opposta a "lividi pensieri"; mentre l’immagine "ridente" di Scilla si opponeva ad una Cariddi "vorticosa di sofferenze". Anche allora, più di una volta, la poesia scattava originale:

"Nel cavo dei miei pensieri/ ti rivedo cinciallegra di ieri/ attingere in piano e in salita/ a piene mani la vita./ Ora che il piano è solo un miraggio/ a mani vuote la vai rasentando”.

Oppure l'ispirazione si distendeva in una mestizia rassegnata:

"Sull'eco dei tuoi pensieri/ remote si fanno le angustie di ieri/ mentre il canto delle sirene/ torna a lambire le antiche pene”.

Canto elegiaco, dunque, limpido e chiaro “Fatamorgana”, ma con la stessa sospesa inquietudine del giorno in cui le due sponde dello Stretto sembrano unirsi per magia.
Era, perciò, ribadita ed evidente l’ispirazione unitaria di Marisa Pelle, che assumeva già il ruolo di una voce poetica appartata, ma autentica, della nostra città.

La riprova venne dalla successiva raccolta, Sulla cifra del tempo (Messina 2004), che mi parve rafforzare, sia pure con spunti sempre diversi, la sua malinconica visione, segnata dall’inesorabile trascorrere del tempo:

Hanno l’acre sapore del vento/ questi giorni strappati al silenzio/ fiori recisi sulla cifra del tempo”

Una poesia priva di slanci appassionati, ma fondata sempre su toni lievi che spesso prendevano spunto dall’osservazione di semplici aspetti della natura. In quella pacata rassegnazione che fa divina la vita, la speranza rinasceva, allora, con la preghiera, capace di trasformare la memoria in canto. Se un appunto mi sentivo allora di fare ad una espressione lirica che manteneva, ripeto, nell’ispirazione un’unità di fondo, era quello di entrare raramente nella storia, quasi ad allontanare da sé i problemi dei “piccoli” uomini rifugiandosi nel contatto con la natura da cui trarre motivo di sommesso canto.

Ma ecco, nel 2009 Sul crinale del giorno. Il motivo del “tempo”, sempre presente nelle precedenti raccolte liriche, si esprimeva ora più spesso tramite l’eleganza di immagini classiche che, senza peccare di erudizione, scaturivano dalle pieghe dell’anima, mentre la “magia delle parole” rendeva meno amara la morsa di colui che inesorabile fugge. Se i toni elegiaci persistevano, il registro tendeva ad elevarsi ancora negli eleganti endecasillabi, novenari e settenari grazie ad un’accurata scelta del lessico in cui prevaleva l’area semantica del “mare” e del “cielo” e, mentre si definiva la vita una

partitura musicale/ che una volta sola è dato eseguire”,

musicali, appunto, si mostravano i versi delle liriche, che, in generale, tendevano a sottolineare il significato dell’esistenza, perennemente sospesa tra dolore e gioia.

Liriche levigate ed eleganti ritrovai pure in Dai gradini del Persephoneion (2010): ora la sensibilità poetica tendeva a farsi cosmica, mentre si accentuava il consueto topos del “tempo”. Le parole, non comuni e quindi distrutte dall’abuso giornaliero, erano ora come distillate dal controllato calore dell’ispirazione: contro la Morte che incombe rimaneva 


la parola che disvela”,

restavano

le ragioni della Speranza”,

gli scampoli

di una bellezza arcana”,

quelli offerti dalla Natura e l’altra dei miti antichi, che la memoria faceva riemergere. Il verso, che sembrava alla poetessa soltanto un

alfabeto dell’anima”,

s’immergeva in quel mito che precedeva la storia.

E giungiamo alla settima silloge, Come fuoco nell’arca. Poesie alla madre (2012), liriche questa volta permeate dal dolore di una perdita che sembra all’autrice totalizzante, rendendo “arido” il presente. Ella strappa allora all’oblio frammenti e trame del passato affondati dalla quotidianità e assegna alla poesia il compito di sacralizzare un passato che ritorna più che mai intenso nel momento del trapasso della persona cara:

Gocciole di cera che il tempo/ ha rappreso sulla pelle/ le nostre ore sommesse silenziose/ Luce affilata che deflagra/ da una candela spenta/ tersa alabastrina/ luce che s’interna nel tessuto/ delle cose.


Pur non mancando versi di magica bellezza, risalenti alla classicità o a tempi più moderni, essi si susseguivano distillati dal dolore, e l’isolamento, al loro interno, di singole parole le caricava di significato, finendo col costituire la cifra caratterizzante della silloge.

Una raccolta successiva, Tavolozza (2014), reca un sottotitolo mutuato da Orazio (Ut pictura poesis): adesso nelle liriche il punto di partenza è un quadro o una scultura. Mentre continua la meditazione dell’autrice sull’esistenza e sul tempo


che brucia la legna degli anni”,

trova posto anche la storia, vista in tante sue tragedie, mentre un lessico classicamente scelto ci presenta personaggi ed opere dell’antichità, permettendo di cogliere nella labilità della vita

l’attimo graffito d’eterno”.

Si crea, insomma, una misteriosa corrispondenza tra l’immagine artistica e l’ispirazione poetica e si coglie come l’ispirazione che ha prodotto le opere di tanti artisti possa trovare piena corrispondenza nella sensibilità poetica, che crea un vero e proprio “affresco di parole”. Ne è esempio l’ultima splendida lirica, ispirata a “La notte stellata” di Van Gogh, dove la varietà del verso produce una musicalità difforme, ma singolarmente composta, capace di rendere il contrasto tra il paesaggio terrestre e il cielo:

Sotto il profilo ondulato dei colli/ a valle dorme il paese reale/ a tratti brevi lineari/ le case le finestre il campanile/ Inquieto di contro il cielo/ urto drammatico di forze/ in movimento/ a pennellate curve ondose”.


La decima silloge di Marisa Pelle, Schizzi di memoria (2016), divisa in tre sezioni (“Tra partenza e approdo”, “Sul crinale della storia”, “Fruscio di colori”) ci presenta, in sintesi, tre caratteristiche della poesia dell’autrice, che già abbiamo in precedenza incontrato.
Nella prima, motivo sempre vivo in lei, è ben rappresentato il suo legame profondo con la poesia

fiore che si spande/ da arcane radici/ dentro la rugosa pietra/ da una crepa sul muro/ da una tegola sconnessa/ a spezzare il silenzio/ Si fa breccia nel frantume /d’un calcinato rudere /a scerpare l’essenza/ Negli alfabeti del mondo”.

Nella seconda, la storia, conquistata, come si è visto, gradatamente, si rende presente nelle liriche proprio attraverso la pietà della poesia stessa, suscitando, grazie al pathos che le anima, lo sdegno del lettore, il quale, di fronte alla frequenza di tanti atti di malvagità, ha l’obbligo di non dimenticare.
Nell’ultima sezione, ecco ricomparire il legame tra poesia e arte: le tinte usate da tanti artisti nelle loro opere sono una tavolozza che l’autrice riesce a far rivivere unendo in magica simbiosi e fecondo abbraccio la parola poetica all’opera d’arte dei quadri di Cézanne, Monet, Chagall, Turner, Kandinsky, Kokoscha, El Greco e di tanti altri, che parlano al lettore di molte altre vite capaci di inviare messaggi universali al mondo.

E giungiamo alla produzione più recente, la raccolta L’onda lunga della parola (2018), comprensiva di sessanta liriche, alcune delle quali dedicate sempre agli affetti familiari, mentre altre recano in esergo dediche personalizzate e spesso prendono spunto, come ormai consueto, da acquerelli, pitture su tela o su legno, tempere, collages e sculture di vari artisti o da opere di poeti (dal poeta e critico d’arte Yves Bonnefoy, alla scrittrice marocchina Fatima Mernissi, da Derek Walcott, poeta e scrittore originario delle Antille che fu premio Nobel a Mark Strand, poeta, saggista e traduttore americano nato in Canada, dal poeta friulano Pierluigi Cappello al grande poeta e scrittore argentino Jorge Luis Borges, al poeta, saggista e drammaturgo russo Iosif Brodskij, anche lui Nobel). Ma neppure mancano poesie che rievocano tragici fatti storici (come l'impiccagione da parte dei nazisti dei membri della Rosa Bianca o i tanti desaparecidos del mondo), talvolta anche attraverso il riferimento a singole persone: ci riferiamo, in particolare, al poeta e saggista russo Osip Mandel'štam, vittima delle purghe staliniane; alla giornalista maltese Daphne Caruana Galizia, rimasta uccisa in un attentato.  
  Ciò che subito si nota e che, del resto, accomuna, in larga misura, questa alle precedenti sillogi è l’estrema cura nella scelta dei vocaboli, circa i due terzi dei quali sono diversi e alcuni dei quali sono settoriali, risultando talora di non facile comprensione al lettore medio. 
  Abbondano nel testo paragoni e similitudini, come pure, singoli termini: “tempo”, vocabolo che abbiamo visto sempre molto presente in tutte le sillogi, assieme a “luce”, ma anche a “parola”. È una “vita”, quella che scorre nei versi, generata da un’osservazione attenta della natura con le sue albe e le sue sere, le nuvole, il vento e la pioggia, il trascorrere delle stagioni, i paesaggi con i loro fiumi, le colline, gli alberi con i loro rami e foglie, i fiori; e poi le onde del mare e, ancora, il “silenzio”. Di tanto in tanto, il “ricordo” si accende, la “memoria” ritorna: “suoni” e “voci” del presente ed echi del passato si fondono, mentre la vista è attratta dalle creazioni degli artisti e, oltre le “ombre” e i “bagliori” trascorsi, emergono chiari i colori, dal blu all’azzurro, dal giallo all’arancio: è allora che la parola forma un tutt’uno con la creazione artistica e si rimane attoniti di fronte a questa simbiosi, di cui scegliamo come sintesi alcuni versi dedicati all’olio di Paul Klee Ad Parnassum, che bene esprimono il pensiero dell’artista riportato in esergo, secondo il quale “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”:

A brani a tratti erratico s’aduna/ il tempo/ Sulla pagina bianca a passi radi/ in un proustiano silenzio/ a centellinare profili/ dettagli sotto traccia/ Alla periferia dell’essere/ manifesto diviene l’invisibile/ Pronuncia sempre nuova/ senza eco fragilissima su carta/ la parola

Auguriamo a Marisa Pelle di proseguire ancora il suo salvifico viaggio poetico per controbattere un mondo, quello odierno, al quale tanto sarebbe necessario guardare al di là delle apparenze e dei prosaici momenti, con pochi lampi, della vita di ogni giorno.

Felice Irrera