PLACIDO
MESSINA DETTO ‘U GHIUGGHIU
Alla
fine dell’Ottocento, chi a Messina avesse voluto gustare i piatti
della tradizione locale, come il soffritto, la ghiotta di
pesce stocco, le braciole di pesce spada o lo stufato
di piedi, si sarebbe dovuto recare alla caratteristica taverna di
Placido Messina, detto ‘u Ghiugghiu, in una delle traverse
del Grande Ospedale, di fronte alla fontana della Provvidenza. Ci
trovava tutti quei piatti e molti altri, ma soprattutto ci trovava le
battute di spirito del taverniere e le parolacce con cui le condiva.
In quella bettola a chilometri zero ante litteram, assieme ai
piatti locali e a «un bicchier di vino puro di Barcellona, del Faro
e di Bordonaro», ci trovava le tovaglie rustiche che profumavano di
bucato, ma che erano abbellite dalle macchie di vino dei precedenti
servizi, che le lavature non erano riuscite a togliere.
E
vi trovava un ambiente buono per tutte le occasioni, un vero locale
democratico e trasversale: «Tutti i signori e borghesi, operai e
popolani, facchini e carrettieri, donnine del demi monde e
della plebe, tutti han passato in quella taverna rusticana delle ore
piacevoli e di leccornia golosa».
Disegno di Arianna Aliffi |
Ma
era destino che quell’angolo di paradiso in terra avesse i giorni
contati, a causa della tragica sorte che sarebbe spettata a Placido
Messina la sera del 21 settembre 1890, per mano di un giovane
carrettiere senza precedenti penali, e che non aveva alcun motivo di
rancore nei confronti del Ghiugghiu. Quella sera Stellario
Mandraffino, ventiquattrenne, entrava nella taverna di Messina in
compagnia di due donne dai facili costumi, Giovanna Sottile e Rosa
Celona, che erano anche madre e figlia. I tre mangiarono e bevvero
allegramente e rumorosamente, e alla fine della cena avrebbero voluto
concludere la serata con un ballo, ma ‘u Ghiugghiu non
glielo permise, spiegando che nell’appartamento adiacente stava una
donna malata, e non avrebbe voluto disturbarla ulteriormente. Le due
donne reagirono malamente al diniego di Messina, e lo aggredirono
prima con le parole, poi con i fatti, procurandogli però solo una
leggera ferita al collo. La rissa fu presto sedata, e la cosa
sembrava finita lì.
Invece,
a conclusione della serata, mentre il taverniere si accingeva a
chiudere il locale, dal buio saltava fuori Mandraffino che lo
aggrediva alle spalle e lo colpiva con un coltello a serramanico, con
una ferita al fianco sinistro che lo avrebbe portato alla morte il
giorno seguente.
Nel
successivo mese di agosto, tutto era pronto per l’inizio del
processo: l’accusa era di omicidio volontario, avendo il tribunale
ritenuto «che il Mandraffino inferse quei colpi di arme allo scopo
di esercitare solamente un atto di mafia».
Si
presentò alla corte l’imputato: un giovanotto alto e magro, con
dei baffetti biondi e vestito in maniera discreta. Provò a
giustificare la sua azione, dicendo di essere stato provocato da
Placido Messina, che lo aveva preso a schiaffi, bastonate e colpi di
sedia, ma la sua dichiarazione fu prontamente smentita da una serie
di testimoni, che confermarono le tesi dell’accusa. Né
migliorarono la sua posizione le dichiarazioni delle due donne che lo
accompagnavano, «che disgustarono tutti col loro cinismo
ributtante».
Si
presentarono anche due testimoni a favore del Mandraffino, pronti a
dichiarare di aver visto ‘u Ghiugghiu schiaffeggiare
l’imputato, ma, smascherata la falsità delle loro parole, furono
arrestati seduta stante come testimoni reticenti e falsi. Giuseppe
Merlino e Letterio Cutroneo – così si chiamavano i due falsi
testimoni – trascorsa qualche ora in carcere, chiesero di essere
risentiti con urgenza, ritrattarono la loro precedente dichiarazione,
aggiunsero di essere stati istigati dalla madre di Mandraffino a fare
quella deposizione, riottennendo la libertà.
Si
susseguirono le requisitorie dell’accusa e della difesa. Il
procuratore, cavalier Castagna, si concentrò sul carattere mite e
gioviale della vittima, cui contrappose la ferocia dell’azione di
Mandraffino. L’avvocato Natale Scaglione, difensore, provò a
puntare sulla volontà di ferire, piuttosto che di uccidere, e fece
leva sul buon passato del Mandraffino: «È un disgraziato che merita
riguardi per la sua condotta buona e gli ottimi precedenti». Infine
l’avvocato Francesco Faranda, personaggio di spicco del Foro
messinese in quegli anni, e presente al processo in qualità di
avvocato di parte civile, definì l’imputato «vittima di
quell’ambiente viziato che lo circondava», e fu il primo a
chiedere che nei suoi confronti fosse applicato il beneficio delle
attenuanti.
Il
verdetto non si fece attendere a lungo. La giuria riconobbe
all’imputato le circostanze attenuanti, con una maggioranza di 7 a
5; a fronte della richiesta di venti anni di reclusione, avanzata dal
procuratore, la Corte condannava Stellario Mandraffino alla pena di
sedici anni e otto mesi di reclusione, più uno di sorveglianza
speciale una volta scontata la pena.
Gerardo
Rizzo