Un inedito
scambio epistolare tra Morabito e Miligi.
Giuseppe Morabito (1996) |
Dopo
che finalmente riuscii a raggiungere, questa volta come docente,
quella scuola che mi aveva formato, andai diverse volte a trovare il
mio professore, ormai in quiescenza, nel suo studio semplice e
austero dove ancora, in età avanzata, continuava a comporre e a
scrivere articoli di vera e propria ribellione a quello che
considerava un sempre più progressivo deteriorarsi degli studi
classici e un deprimente declino della razionalità sicuramente ad
essi connessa.
Conobbi, invece, Giuseppe Miligi, anche lui uomo di scuola e già in essa Preside, fine critico della letteratura contemporanea (in particolare del Futurismo), frequentatore di altri personaggi della Messina che fu (come i “ragazzi dello Jaci” Pugliatti e Quasimodo), negli ultimi anni della sua vita, quando, anche lui ormai pensionato, mi fu presentato da Peppino Cavarra, altro studioso che, come loro, ha onorato Messina.
Conobbi, invece, Giuseppe Miligi, anche lui uomo di scuola e già in essa Preside, fine critico della letteratura contemporanea (in particolare del Futurismo), frequentatore di altri personaggi della Messina che fu (come i “ragazzi dello Jaci” Pugliatti e Quasimodo), negli ultimi anni della sua vita, quando, anche lui ormai pensionato, mi fu presentato da Peppino Cavarra, altro studioso che, come loro, ha onorato Messina.
Giuseppe Miligi |
Tra
le carte-Miligi, ho ritrovato un dattiloscritto, forse poi da lui
pubblicato su qualche giornale o rivista, a cui ho potuto attingere
materiale per questo singolare episodio, in cui egli scrive di non
aver conosciuto direttamente, ma solo per fama, Morabito, fino
all’inizio degli anni Novanta, anche se spesso lo incontrava la
domenica, alla Messa delle otto, nella chiesa del Carmine.
L’occasione
per fare conoscenza, racconta Miligi, gli fu data dalla “rivoluzione”
liturgica che segnò (con grande rammarico del professore Morabito)
la fine della Messa in latino, introducendo, fra l’altro, lo
scambio di “un segno di pace” tra i fedeli: ed ecco che,
trovandosi vicini, la rituale stretta di mano fece le veci di una
formale presentazione, sicché da allora in poi si salutarono sempre.
Ed
ecco che nel dicembre 1991 Morabito fermò Miligi all’uscita della
chiesa, per dirgli, sorprendendolo non poco, della sua intenzione di
mettere in versi latini la più nota delle liriche di Quasimodo,
“Vento a Tindari”, per realizzare la quale chiedeva la sua
collaborazione.
La
sorpresa di Miligi si spiegava, naturalmente, col fatto che ben
conosceva le riserve di Morabito su Quasimodo, al quale, in un
articolo, il latinista aveva imputato l’inosservanza delle
tradizionali regole della metrica. In cosa consisteva, dunque, la
collaborazione richiesta?
Morabito
desiderava semplicemente che Miligi gli volgesse in prosa il testo di
quella lirica, in modo da rispettare le regole comuni della
comunicazione del pensiero e da aderire perfettamente alle intenzioni
del poeta.
Miligi,
nonostante prospettasse subito al suo interlocutore le difficoltà
dell’operazione, per via dell’ambiguità del linguaggio
espressivo delle poetiche moderne, promise di cercare di
accontentarlo e la domenica successiva, al solito appuntamento della
Messa, gli consegnò (assieme ad alcune pubblicazioni) la lettera che
qui riproduciamo nell’originario dattiloscritto.
Messina,21
dicembre 1991
Gentile
professor Morabito,
ricollegandomi
al nostro incontro dell’altro giorno ed alla Sua richiesta
di mettere nei termini di un discorso che abbia la conseguenzialità
logica di una prosa narrativa o descrittiva il famoso Vento
a Tindari
di Quasimodo, Le ripeto che la cosa non solo
non
è facile ma nemmeno
del tutto possibile. Mi limiterò pertanto
ad
avanzare delle ipotesi interpretative
sperando che possano
esserLe
di una qualche utilità nel lavoro
di traduzione.
Le
ragioni di quanto sopra detto sono quelle di cui si è
parlato quel
giorno e riguardano in fondo quasi tutta la poesia moderna.
Le
troverà
espresse nell'articolo che Pugliatti ha dedicato alla lirica in
parola che direttamente lo coinvolge(come certo saprà è lui il
"soave amico" evocato nell'ultima strofe).
Le
mando fotocopia di una plaquette
che lo riproduce assieme al
testo
della poesia così
come è apparsa in Acgue
e terre (ho
segnato in inchiostro
rosso le varianti apportate nella redazione definitiva di Ed
è subito sera).
Come ben può vedere, nemmeno Pugliatti mette
in chiaro
tutte le immagini poetiche, limitandosi quasi sempre a suggerirne il
senso
globale:che
scaturisce quasi sempre dalle suggestioni espressive più
che dal significato logico delle parole: con quel tanto di ambiguità
e
di
soggettività che ne consegue. Ritengo così legittimo dissentire
dalle interpretazioni
che non poggino su dati oggettivi,riscontrabili.
Per
esempio,il verso della 2ᵃ strofe
"onda
di suoni e amore" mi pare
possa
essere
inteso diversamente da come lui propone. Potrebbe contenere
un'endiadi e riferirsi alla "brigata" che il poeta –
tutto "assorto" com'è
nei pensieri che il "vento"gli suscita - percepisce come
un’"onda" "lontana"("s'allontana
nell'aria")di "suoni amorosi". E' un'interpretazione
- ovviamente del tutto soggettiva - che offre il vantaggio di
un'agevole traduzione.
Quanto
agli altri versi della 2ᵃstrofe(la lᵃnon mi pare ponga problemi):
-il
tu("e
tu mi prendi")come propone Pugliatti(e mi pare interpretazione
autorizzata
dati i suoi rapporti col poeta)va riferito ad un "fantasma
femminile"(come lo dice Montale nella lettera a Pugliatti che Le
accludo,da me copiata
nella parte che interessa)
-male
mi trassi
dice,mi pare,di un distacco
non volontario,dovuto alla malignità
della sorte,dalla donna amata
-i
tre versi finali alludono - a mio parere - alle conseguenze negative
di tale
distacco(nel 2°dei tre versi,rifugi
potrebbe tradursi in ricordi:
il
poeta può solo rifugiarsi nel ricordo se vuole ritrovare
quelle"dolcezze"che "un tempo" erano realtà
d'ogni giorno "assidue")
Quanto
alla 3ᵃ
strofe:
-la
terra("ove
ogni giorno affondo")è
da intendersi metaforicamente come
condizione di vita,del tutto dissonante rispetto ai "sogni"
di
cui
segretamente
si nutre la sua poesia("segrete sillabe nutro"):
segretamente
perché nella dura realtà in cui il poeta si trova immerso non c'è
posto
per il sogno-poesia(per la "ricerca d'armonia" di cui si
parla nella strofe
seguente)
-i
4 versi finali sono da ricollegare all'attacco iniziale della strofe:
"A
te ignota è
la terra...". Cioè: tu non sai più nulla della mia vita, ne
sei del tutto fuori perché ormai "altra luce ti sfoglia etc.,
"(rinunzio a
suggerire l'equivalente logico dell'immagine, anche se il senso
è
abbastanza chiaro ed è,comunque,chiaramente indicato nei due versi
finali:
gioia non mia/riposa sul tuo grembo.
La
4ᵃ strofe:
-
Per
esilio
Le ho già
detto che va inteso come condizione di alienazione,
di emarginazione: la ricerca
d'armonia
che connotava il sogno lontano
legato all'immagine femminile si è mutata in desiderio di
morte;
ogni
amore
che il poeta ora tenta serve solo a mascherare (è
schermo)
la tristezza:non è che passo
nel buio
e nell'amarezza diventata
ormai
cibo quotidiano (=pane).
L'ultima
strofe, come la prima, non mi pare presenti difficoltà
di
interpretazione.
Come
vede dalla lettera che Le ho copiato, anche Montale confessa
(a
Pugliatti)le sue perplessità
e difficoltà di interpretazione. Curiosamente
però l'immagine per lui più ermetica
è quella che a me
sembra
più accessibile (onda
di suoni e amore)
mentre sembra non
trovare
particolari ostacoli a decifrare quella che mi riesce più ostica:
("altra luce
ti sfoglia…").
Unisco
il l° dei "Quaderni quasimodiani"di recente pubblicazione
che
reca
un mio saggio sul carteggio Quasimodo-Misefari. Si renderà
conto
che
per Quasimodo la Calabria non fu terra d'esilio come comunemente
si
è inteso. L'esilio
fu per lui una dimensione interiore:se lo portava
sempre
dietro e dentro dovunque si trovasse.
Spero
di non averLa troppo delusa e mi auguro che le mie ipotesi
di
lettura possano essere
di qualche utilità al Suo lavoro di traduzione.
Cordialmente
Suo
Giuseppe
Miligi
Pochi
giorni dopo aver ricevuto questa lettera, Morabito consegnò a Miligi
la sua risposta, accompagnandola con alcuni suoi scritti di recente
pubblicazione, testimonianza non solo di quanto fosse ancora attivo e
fecondo l’otium della
sua quiescenza e viva e reattiva la sua curiosità intellettuale, ma
anche di come egli vivesse il presente col cuore e la mente sempre
rivolto ai suoi amati classici.
Ed
ecco la lettera del professore.
26
- 12 - '91
Egregio
collega,
ho
finito stamane di leggere le lettere a Misefari. Sapevo molto poco
di lui,né
ho letto alcuna sua pagina. Penso di passare in biblioteca
e vedere se trovo qualcosa. Intanto ammiro la Sua acribia
nell'ordinare e
chiarire tanto materiale.
Cercherò
di rileggere con mente più calma,ma ho poca fiducia,in me e nella
mia età che preme. Son passati più di 60 anni dalla composizione
del Vento
a T.
e il buio rimane. Penso a quel tu. Poiché altri non pensano a una
donna,ma lo riferiscono a Tindari(ultimo,come Le dissi, è Giuseppe
Mansi,acuto studioso come dimostrano i numerosi volumi pubblicati),io
non saprei scegliere. Io non conoscevo la lettera di Montale; d'altra
parte Quasimodo,col suo silenzio,aveva accettato quel che aveva
proposto Pugliatti.Io non so connettere le varie parti. Se la poesia
deve essere un rebus
da fare impazzire,la respingo quanto posso. Q. dice
che il Vento
fu letto in un teatro di Genova e il pubblico sceltissimo applaudiva.
Devo convincermi che il pubblico,anche raffinato
e sceltissimo,
è una massa di imbecilli, se applaude ciò che non ha potuto
capire:dopo 60 anni si è incerti e si fantastica. Forse è più
chiaro il Veltro di Dante. Vann'Anto'(passo,due tre volte al
mese,davanti alla sua tomba)un giorno mi disse che Q. aveva un
orecchio finissimo;io non credo molto,e lo scrissi varie volte;
pensavo a quei suoi endecasillabi falsi,che
ho anche citato;credo che non
se
ne trovi uno in tutta la letteratura
nostra.
Finito
l'ermetismo venne
la
poesia civile,e quei versetti sulla luna
che tradussi in latino,senza leggi come non c'è
legge in italiano. Per
me,prosa. C'è un verso(e non ricordo dove possa essere), come
sarebbe "nel
mille novecento trentanove": versi del genere,in una poesia
scherzosa,possono andare,ma dovrebbe essere rimata;fuori,e senza
rime,non credo.
La
mia chiusa ostilità
è dovuta certo al mio insegnamento,al mio uso del latino; ma pensi
al giudizio di un prof. di Italiano a Bologna,Alfredo
Galletti(è nel suo Novecento);
nessuno lo cita. Diversa mentalità;forse
anche diversa forma delle rotelle cerebrali. Dicendo questo non
intendo
recar dispiacere a quanti coltivano o ammirano la poesia ermetica,
che ancora mi pare continui per certe stramberie che ho letto
recentemente senza
capirci quasi nulla.
Lasciando
questo,debbo dirLe che mi fa ridere lo strutturalismo(a
p.39
del
1° Quaderno).Dieci anni fa ho visto queste stupidaggini in cose
latine;non
posso mandarLe il mio opuscolo relativo;se qualche volta avesse
curiosità
di vederlo,lo troverebbe in biblioteca(ma funziona?); cosa più
recente
è in "Calabria Letteraria" che può trovare in biblioteca
nella sede delle riviste:l'ho scritto per i versi latini su Sciascia
pubblicati sulla
Gazzetta
due anni fa. L'articolo la Gazzetta non lo volle,ho dovuto un
po'ampliarlo,aggiungendo qualcosa all'inizio e alla fine. Ho corretto
a mano gli errori di stampa,aggiungendo un rigo saltato.
Fermarsi
a contare quanti U ed A ci sono in un verso,come fa Musarra, per
me è
ridicolo,come è cosa stupida notare,come ha fatto una studiosa di
Quasimodo,che,nei tre versetti di Ed
è subito sera,nel
primo verso ci sono tutte le vocali ma senza la i; nel secondo tutte
senza la u;nel terzo ci
sono tutte e cinque!Che miracolo!
La
ringrazio della Sua,che conserverò,e
di ciò che vi ha aggiunto.
In
una busta avevo raccolto alcuni articoli su Q,; ora debbo cambiare
busta per i nuovi arrivati. Le mando un mio fascicolo latino e due
articoli in fotocopia.
Intanto
buon anno a Lei e Signora con l’augurio di poterci incontrare altre
volte.
Giuseppe
Morabito
Erq,
dunque, l’abbandono del progetto morabitiano della traduzione di
“Vento a Tindari”!
Connettere
le varie parti della lirica inserendovi i nessi logici mancanti era,
secondo lui, un’operazione che comportava l’abuso di
un’interpretazione soggettiva, che non trovava un riscontro
oggettivamente certo nel testo poetico.
Per
lui, insomma, era imperativo categorico per il traduttore il rispetto
assoluto del pensiero dell’autore, e questo anche nel caso in cui
una specifica poetica autorizzasse l’arbitrio di una libera
interpretazione: avrebbe voluto avere a disposizione la diretta
testimonianza di Quasimodo.
Giuseppe
Miligi, nel dattiloscritto citato all’inizio, così scriveva in
conclusione:
“A
me comunque lascia un vivo rammarico la rinuncia del prof. Morabito,
la sua riluttanza a cimentarsi in un’impresa che riteneva
arbitraria. Mi attendevo da lui un’operazione analoga specularmente
(…) a quella di Quasimodo, che (…) aveva saputo riproporre in
veste moderna gli incanti della poesia dei nostri avi greci e latini.
Ma il prof. Morabito non si sentì di impegnarsi nell’operazione
inversa, che forse solo lui – così perdutamente “classico” tra
gli antichi classici e “totus in illis” – avrebbe potuto
realizzare”.
Dopo
quest’episodio, comunque, scrive ancora Miligi, “l’incontro
domenicale al Carmine – il saluto, il breve scambio di cortesie –
fu meno formale, ebbe toni di affabilità”.
Oggi,
questi due uomini così diversi tra loro, eppur così rispettosi
l’uno dell’altro, non ci sono più e ci piace pensare che,
credenti quali entrambi erano, s’incontrino ancora in cielo.
Felice
Irrera