Non
spargerai false dicerie
[ESODO
23,1]
Occulta
e tragica calamità, il coronavirus subdolo e oscuro va sterminando
popoli e nazioni. Ma esenti da esaltazioni, agiscono e si rivelano
eroici testimoni, esercito schierato in battaglia: persone senza
remora alcuna donatisi agli altri. Non limiti di tempo, né di
spazio. Vivono solidarietà, ammirevoli, commoventi, nell’
“abbandono” e nei “distacchi” dalle proprie famiglie a pro
della grande famiglia delle corsie. Medici, infermieri, volontari,
uomini di governo, istituzioni, plurimi e variegati artisti, innumeri
persone che, unanimi e concordi, invadono l’aere con canzoni, inni,
“rumori”. Tutti infondono speranza. Altrettanti si intrattengono
in costanti e fiduciose preghiere.
Sgradevole
reazione, però, serpeggia inarrestabile: una interpretazione
“risolutiva” che, appaga gli ispiratori certamente avulsi dalla
realtà che li circonda e dai parametri di scienza e di fede.
Costoro, assurti agli scranni giudiziali di sedicenti legulei, con
supponenza di antiche e attuali pitonesse, siano queruli presbiteri o
saputi “Christifideles
laici”,
forse per appagare l’innato istinto di essere ottimi lettori degli
eventi e in modo particolare del coronavirus, hanno posto nel banco
degli imputati Dio, la “Madonna”, il tempo:
“Dio
è stanco. Non ce la fa più”; “Tutto è un castigo della
“Madonna”; È la fine del mondo!”.
Lo
stile è quello che, secondo loro, era animatore
della burbanza di
atavici profeti e di occhiuti indovini. I toni di voce sospirati ed
evanescenti, alternati ad arrabbiature tremebonde. Per le strade, nei
condomini, negli oratori, nei mercati, nelle sacrestie, gagliardi
vagabondi in uno spettacolare fuori tema: squallido, penoso,
dissacrante, offensivo, “blasfemo”.
Inconsapevole
retaggio di “proselitismo” alla canzone di chi, sgomento e
sinceramente addolorato dinanzi alle infinite tragedie di questo
mondo, nei riguardi di Maria aveva evidenziato:
“Anche
tu hai fatto finta di non vedere”!
Salva
l’arte dell’appassionato e superlativo artista giustamente famoso
nell’orbe terracqueo, l’affermazione precede (ed è seguita
seppur non liricamente) gli “accusatori” di Dio, di Maria, dei
millenaristi. Ma quanti tra loro devoti e pii, emeriti bacchettoni
pregano Dio, si cibano di Cristo, recitano rosari, vivono il tempo?
Atteggiamenti
pagani verniciati di cristianesimo?
Non
è forse Amore il Dio nel quale crediamo?
“Dio
è amore; e chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui”
[1 Gv 4,16]; “Dio ha mandato il suo unigenito figlio nel mondo,
perché noi avessimo la vita per lui” [1 Gv 4,9].
In
tale realtà - Amore - si muovono, credenti o no. Se si rimprovera
Dio come causa del coronavirus non rimangono esenti da tale condanna
tutti coloro che con dedizione e amore combattono per debellarlo. È
mai possibile che a Gesù, il quale si è addossato il dolore e le
sofferenze dell’umanità e che “passò beneficando e benedicendo”
[At 10,38] e che ha donato se stesso per gli uomini sia imputabile il
coronavirus?
Come
pensare che Maria, la misericordiosa, la genitrice del
Misericordioso, sia alleata con il Padre e il Figlio ritenuti causa
del coronavirus e della sciagura di tali e tanti strazi? Come
rinnegare il suo intervento a Cana, affinché le nozze non si
concludessero in un miserevole fallimento? Che non sia lei a
notificare a Gesù: “Non hanno più vino” [Gv 2,31]? Come non
identificare nei servi-collaboratori tutti coloro che faticano
affinché l’acqua sia mutata in vino e il coronavirus lasci il
posto alla salute e alla vita?
Come
non rimanere attoniti ai proclami di coloro i quali ad ogni evento
che reca disastri ripetono nostalgici: “È la fine del mondo!”?
A
tale riguardo c’è da ripetere: “Quanto a quel giorno e a
quell’ora, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il
Figlio, ma solo il Padre” [Mt 24,36].
Se
il coronavirus fosse segno della imminente fine del mondo,
immaginarsi quale incoraggiamento, sostegno e speranza se ne potrebbe
evincere!
Sarebbe
vana, illusoria, follemente colpevole la fatica di tutti coloro i
quali, e sono tanti e son molti, espongono e donano la loro vita.
A
conclusione, più che mai opportune e indicative le parole di
Alessandro Magno al calzolaio che criticava i calzari del grande
ritratto che
Apelle aveva
dipinto per lui. I primi due interventi furono accolti con
benevolenza. Con entusiasmo il ciabattino osò intervenire per
commentare i ginocchi. Alessandro gli ordinò: “Ne supra crepidam
sutor” (“Calzolaio non oltre i calzari”): “Scappareddu,
stattiti mutu!”.
Mons.
Eugenio Foti