lunedì 30 marzo 2020

DIO E MARIA TRA GLI IMPUTATI


Non spargerai false dicerie
[ESODO 23,1]
Occulta e tragica calamità, il coronavirus subdolo e oscuro va sterminando popoli e nazioni. Ma esenti da esaltazioni, agiscono e si rivelano eroici testimoni, esercito schierato in battaglia: persone senza remora alcuna donatisi agli altri. Non limiti di tempo, né di spazio. Vivono solidarietà, ammirevoli, commoventi, nell’ “abbandono” e nei “distacchi” dalle proprie famiglie a pro della grande famiglia delle corsie. Medici, infermieri, volontari, uomini di governo, istituzioni, plurimi e variegati artisti, innumeri persone che, unanimi e concordi, invadono l’aere con canzoni, inni, “rumori”. Tutti infondono speranza. Altrettanti si intrattengono in costanti e fiduciose preghiere.
Sgradevole reazione, però, serpeggia inarrestabile: una interpretazione “risolutiva” che, appaga gli ispiratori certamente avulsi dalla realtà che li circonda e dai parametri di scienza e di fede. Costoro, assurti agli scranni giudiziali di sedicenti legulei, con supponenza di antiche e attuali pitonesse, siano queruli presbiteri o saputi “Christifideles laici”, forse per appagare l’innato istinto di essere ottimi lettori degli eventi e in modo particolare del coronavirus, hanno posto nel banco degli imputati Dio, la “Madonna”, il tempo:
Dio è stanco. Non ce la fa più”; “Tutto è un castigo della “Madonna”; È la fine del mondo!”.
Lo stile è quello che, secondo loro, era animatore della burbanza di atavici profeti e di occhiuti indovini. I toni di voce sospirati ed evanescenti, alternati ad arrabbiature tremebonde. Per le strade, nei condomini, negli oratori, nei mercati, nelle sacrestie, gagliardi vagabondi in uno spettacolare fuori tema: squallido, penoso, dissacrante, offensivo, “blasfemo”.
Inconsapevole retaggio di “proselitismo” alla canzone di chi, sgomento e sinceramente addolorato dinanzi alle infinite tragedie di questo mondo, nei riguardi di Maria aveva evidenziato:
Anche tu hai fatto finta di non vedere”!
Salva l’arte dell’appassionato e superlativo artista giustamente famoso nell’orbe terracqueo, l’affermazione precede (ed è seguita seppur non liricamente) gli “accusatori” di Dio, di Maria, dei millenaristi. Ma quanti tra loro devoti e pii, emeriti bacchettoni pregano Dio, si cibano di Cristo, recitano rosari, vivono il tempo?
Atteggiamenti pagani verniciati di cristianesimo?
Non è forse Amore il Dio nel quale crediamo?
Dio è amore; e chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” [1 Gv 4,16]; “Dio ha mandato il suo unigenito figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui” [1 Gv 4,9].
In tale realtà - Amore - si muovono, credenti o no. Se si rimprovera Dio come causa del coronavirus non rimangono esenti da tale condanna tutti coloro che con dedizione e amore combattono per debellarlo. È mai possibile che a Gesù, il quale si è addossato il dolore e le sofferenze dell’umanità e che “passò beneficando e benedicendo” [At 10,38] e che ha donato se stesso per gli uomini sia imputabile il coronavirus?
Come pensare che Maria, la misericordiosa, la genitrice del Misericordioso, sia alleata con il Padre e il Figlio ritenuti causa del coronavirus e della sciagura di tali e tanti strazi? Come rinnegare il suo intervento a Cana, affinché le nozze non si concludessero in un miserevole fallimento? Che non sia lei a notificare a Gesù: “Non hanno più vino” [Gv 2,31]? Come non identificare nei servi-collaboratori tutti coloro che faticano affinché l’acqua sia mutata in vino e il coronavirus lasci il posto alla salute e alla vita?
Come non rimanere attoniti ai proclami di coloro i quali ad ogni evento che reca disastri ripetono nostalgici: “È la fine del mondo!”?
A tale riguardo c’è da ripetere: “Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre” [Mt 24,36].
Se il coronavirus fosse segno della imminente fine del mondo, immaginarsi quale incoraggiamento, sostegno e speranza se ne potrebbe evincere!
Sarebbe vana, illusoria, follemente colpevole la fatica di tutti coloro i quali, e sono tanti e son molti, espongono e donano la loro vita.
A conclusione, più che mai opportune e indicative le parole di Alessandro Magno al calzolaio che criticava i calzari del grande ritratto che Apelle aveva dipinto per lui. I primi due interventi furono accolti con benevolenza. Con entusiasmo il ciabattino osò intervenire per commentare i ginocchi. Alessandro gli ordinò: “Ne supra crepidam sutor” (“Calzolaio non oltre i calzari”): “Scappareddu, stattiti mutu!”.
 
Mons. Eugenio Foti