giovedì 26 dicembre 2019

RICOSTRUENDO LA MEMORIA

Un'altra opera del Maurolico “riconsegnata” ai messinesi in una nuova e integrale traduzione dal latino.
 
È uscita in questi giorni, per i tipi dell’editore Pungitopo, l’ultima fatica di Felice Irrera e Giuseppe Puzzello: la versione moderna in italiano del “Sicanicarum rerum compendium” del messinese Francesco Maurolico, che nasce dal proposito degli autori di dar seguito al progetto “Luci dalla storia di Messina” (già iniziato con la prima versione italiana della secentesca Messina illustrata del gesuita messinese Placido Samperi), ed ha l’ambizione di offrire ai lettori italiani, e in particolare a quelli siciliani, la possibilità di conoscere, nella lingua di oggi, un’ampia parte della storia della Sicilia e di Messina.
L’unica traduzione esistente precedente a questa era quella del sacerdote palermitano Girolamo Di Marzo-Ferro, stampata per la prima volta a Palermo nel 1844. Quest’ultima, però, non solo mostrava, com’è naturale, i segni del tempo, ma presentava pure, come puntualmente dimostrano i traduttori, numerose imprecisioni sul piano linguistico e interpretativo e non poche omissioni; carenze nella lettura delle fonti (per lo più accettate acriticamente) e anche nella denominazione e individuazione dei luoghi geografici, che mancavano di uniformità e precisione, ingenerando in tal modo confusione nel lettore: adesso finalmente chi legge la nuova traduzione è messo in grado di conoscere con precisione dove determinati avvenimenti sono accaduti e così la storia della nostra isola, dalle origini alla metà del Cinquecento, risulta a tutti più chiara.
Un grave difetto della versione del Di Marzo-Ferro era, poi, lo spirito campanilistico, che talora raggiungeva la faziosità, aleggiante in tutto il racconto, nel suo intento malcelato di contrapporre all’importanza storica della città mamertina la felice città di Palermo, sua città natale; mentre pure rimproverava Maurolico d’incompletezza, di mancanza di precisazioni, di eccessiva concisione, di qualche omissione, ma soprattutto di non aver trattato in modo completo la storia dell’isola, ma quasi soltanto quella di Messina, dimenticando Palermo.
La presente versione del Sicanicarum rerum Compendium, condotta sull’Editio princeps di esso, fu stampata a Messina nel 1562, su commissione al Maurolico del Senato messinese, che intendeva replicare al protagonismo di Palermo nelle vicende insulari. L’autore, tuttavia, spiega, nella sua prefazione all’opera, di non aver scritto per spirito municipalista, ma per amore di verità scientifica.
C’è pure da sottolineare che questa traduzione è stata integrata con quella dei frammenti editi successivamente dal Baluzio (sicuramente opera dello stesso Maurolico) e, rettificando le interpretazioni manifestamente erronee del primo traduttore, integrandone le omissioni, precisando, uniformando e individuando la denominazione attuale dei luoghi geografici, vuole offrire del Compendium un’interpretazione linguistica equilibrata, scorrevole e moderna, sempre giustificata dal testo.
È importante pure osservare che Maurolico, secondo l’uso del tempo, presenta nella sua opera solo generiche e limitate note a margine, che poco aiutano chi va alla ricerca di precisi riferimenti. Questo lavoro di traduzione, invece, propone numerosissime note in corrispondenza di eventi, luoghi e personaggi ormai lontani nel tempo, allo scopo preciso di aiutare il lettore a districarsi nella selva, spesso oscura, data la lontananza nel tempo, di quest’opera storica; mentre un’adeguata scelta d’immagini relative ad un testo che ne era assolutamente privo giova ad avvicinare il lettore ai luoghi e ai personaggi che compaiono nell’opera.
Anche per il fatto che esiste in città un liceo (l’unico in Italia) che reca il nome del grande scienziato ed umanista, è un libro che fa memoria e quindi non dovrebbe mancare nella biblioteca dei Messinesi. Insomma un'opportunità per un prezioso regalo di Natale.

Giuseppe Iannello

domenica 8 dicembre 2019

IL RITORNO DEL DESAPARECIDO

Ed ecco Di Battista
tornar di nuovo in pista!
Che cosa abbiamo fatto,
quale orrendo misfatto

dobbiamo noi scontare
per doverlo ascoltare?
Paghiam le colpe altrui!
E intanto proprio lui

trascina quello sciocco
(un vero e proprio allocco!)
di Gigino Di Maio
nel classico troiaio

di guerra permanente
con l’altro contendente
d’un governo che ormai
immerso è in tanti guai.

Senza spina dorsale,
il crollo è verticale
e questo capo imbelle
guidato da un ribelle,

da buon invertebrato
sarà presto azzerato
e i suoi cari grillini
ridotti a pezzettini!

L’alba d’un nuovo giorno
ci mostrerà il ritorno
d’un ducetto di pezza
pieno di zotichezza?

Ci dice Vespa Bruno
che certo ormai nessuno
potrà resuscitare
e poi rintonacare

il fascismo d’un tempo,
ma è solo un perditempo,
ché avremo quella speme
mettendo solo insieme

Salvini e Di Battista,
uniti in una lista
che porti a distruzione
questo popol zuccone!
 
Felice Irrera

lunedì 25 novembre 2019

DISCORSO DI UN ITALIANO SUI POLITICI DI QUEL PAESE



 “Chi ha qualche idea
la tiri un po’ giù,
ché ormai sono stanco,
non ce la fo più!”.

Son queste le frasi
che dice sconvolto
un povero cristo,
mettendoci il volto,

in quanto il lavoro
ha perduto da tempo,
né più ritrovato
l’ha poi nel frattempo?

Macché, cittadini,
è solo quel Conte
che guida il governo,
che è proprio la fonte

da cui gli Italiani
aspettano aiuto
per ogni problema
per loro più acuto!

La colpa, di certo,
è di quelli di prima,
che han governato
con pessima stima!

Così, andando indietro,
Savoia e Borboni
colpevoli sono,
da veri cialtroni

che tutto il Paese
hanno sì ridotto
che l’Ilva non regge
e Venezia è un canotto,

già preda di un’acqua
che tutto sommerge!
Invece, parliamo
del fango che emerge

dagli anni in cui Silvio,
re Mida, discese
ed ogni morale
abolì nel Paese:

Perché gli evasori
dovremmo cercare
se inver troppe tasse
facciam lor pagare?

E voi, costruttori,
sbancate anche i monti,
col vostro cemento
deviate acque e fonti

e non risparmiate
il verde che abbonda
e non serve a niente:
che vale una fronda?

Milioni di posti
darò agli Italiani,
ricchezza per tutti,
se non son baggiani!”.

Son scorsi decenni
già dopo Bettino,
che del Cavaliere
fu il vero padrino,

e tanti governi
si son succeduti,
ma non sono quelli,
da onesti voluti,

che vogliono il bene,
guardando lontano,
dei lor cittadini
e come un gabbiano

si librano in alto!
Invece, un padano
che dice idiozie
e, come il campano,

non fa che sciocchezze
dobbiam sopportare!
Ma chi li ha voluti
a rappresentare

un popolo intero
che han preso per gonzo,
fingendo perizia
con facce di bronzo?

Son loro, i partiti,
che ci hanno vietato
di scegliere liberi
ciascun deputato

e invece, in segreto
(o scelta cialtrone!)
le liste da fare
per ogni elezione

(e quindi gli eletti)
han deciso, imbroglioni,
per cui sono eletti
gli inetti e arraffoni

che affollan le liste
composte con cura
da chi dell’effetto
davver non si cura:

è solo importante
che rechino voti
al proprio partito,
seppur arcinoti

per loro ignoranza,
ovver maneggioni
che pagano i voti
e poi, trafficoni,


in mente hanno il piano
di presto rifarsi
rubando a man salva:
è vano lagnarsi!

Se questo è accaduto,
motivo stringente
è stato il lavoro
che manca alla gente.

Son molte migliaia
che sbarcan lunario
senza aver visto mai
un abbecedario,

succhiando non latte
da colme mammelle
di madri affettuose,
ma sangue da quelle

strutture di Stato
formate (si dice)
con quello versato
in altra cornice!

L’Italia è ormai piena
di ladri di Stato,
che più dei furfanti
l’han proprio affossato!

Soltanto la penna
a chi non ha voce
rimane da usare,
e molto feroce!
 
Novembre 2019
Felice Irrera

lunedì 23 settembre 2019

CRONACHE DI FINE OTTOCENTO. Placido Messina detto ‘u Ghiugghiu

PLACIDO MESSINA DETTO ‘U GHIUGGHIU

Alla fine dell’Ottocento, chi a Messina avesse voluto gustare i piatti della tradizione locale, come il soffritto, la ghiotta di pesce stocco, le braciole di pesce spada o lo stufato di piedi, si sarebbe dovuto recare alla caratteristica taverna di Placido Messina, detto ‘u Ghiugghiu, in una delle traverse del Grande Ospedale, di fronte alla fontana della Provvidenza. Ci trovava tutti quei piatti e molti altri, ma soprattutto ci trovava le battute di spirito del taverniere e le parolacce con cui le condiva. In quella bettola a chilometri zero ante litteram, assieme ai piatti locali e a «un bicchier di vino puro di Barcellona, del Faro e di Bordonaro», ci trovava le tovaglie rustiche che profumavano di bucato, ma che erano abbellite dalle macchie di vino dei precedenti servizi, che le lavature non erano riuscite a togliere.
E vi trovava un ambiente buono per tutte le occasioni, un vero locale democratico e trasversale: «Tutti i signori e borghesi, operai e popolani, facchini e carrettieri, donnine del demi monde e della plebe, tutti han passato in quella taverna rusticana delle ore piacevoli e di leccornia golosa».
Disegno di Arianna Aliffi
Ma era destino che quell’angolo di paradiso in terra avesse i giorni contati, a causa della tragica sorte che sarebbe spettata a Placido Messina la sera del 21 settembre 1890, per mano di un giovane carrettiere senza precedenti penali, e che non aveva alcun motivo di rancore nei confronti del Ghiugghiu. Quella sera Stellario Mandraffino, ventiquattrenne, entrava nella taverna di Messina in compagnia di due donne dai facili costumi, Giovanna Sottile e Rosa Celona, che erano anche madre e figlia. I tre mangiarono e bevvero allegramente e rumorosamente, e alla fine della cena avrebbero voluto concludere la serata con un ballo, ma ‘u Ghiugghiu non glielo permise, spiegando che nell’appartamento adiacente stava una donna malata, e non avrebbe voluto disturbarla ulteriormente. Le due donne reagirono malamente al diniego di Messina, e lo aggredirono prima con le parole, poi con i fatti, procurandogli però solo una leggera ferita al collo. La rissa fu presto sedata, e la cosa sembrava finita lì.
Invece, a conclusione della serata, mentre il taverniere si accingeva a chiudere il locale, dal buio saltava fuori Mandraffino che lo aggrediva alle spalle e lo colpiva con un coltello a serramanico, con una ferita al fianco sinistro che lo avrebbe portato alla morte il giorno seguente.
Nel successivo mese di agosto, tutto era pronto per l’inizio del processo: l’accusa era di omicidio volontario, avendo il tribunale ritenuto «che il Mandraffino inferse quei colpi di arme allo scopo di esercitare solamente un atto di mafia».
Si presentò alla corte l’imputato: un giovanotto alto e magro, con dei baffetti biondi e vestito in maniera discreta. Provò a giustificare la sua azione, dicendo di essere stato provocato da Placido Messina, che lo aveva preso a schiaffi, bastonate e colpi di sedia, ma la sua dichiarazione fu prontamente smentita da una serie di testimoni, che confermarono le tesi dell’accusa. Né migliorarono la sua posizione le dichiarazioni delle due donne che lo accompagnavano, «che disgustarono tutti col loro cinismo ributtante».
Si presentarono anche due testimoni a favore del Mandraffino, pronti a dichiarare di aver visto ‘u Ghiugghiu schiaffeggiare l’imputato, ma, smascherata la falsità delle loro parole, furono arrestati seduta stante come testimoni reticenti e falsi. Giuseppe Merlino e Letterio Cutroneo – così si chiamavano i due falsi testimoni – trascorsa qualche ora in carcere, chiesero di essere risentiti con urgenza, ritrattarono la loro precedente dichiarazione, aggiunsero di essere stati istigati dalla madre di Mandraffino a fare quella deposizione, riottennendo la libertà.
Si susseguirono le requisitorie dell’accusa e della difesa. Il procuratore, cavalier Castagna, si concentrò sul carattere mite e gioviale della vittima, cui contrappose la ferocia dell’azione di Mandraffino. L’avvocato Natale Scaglione, difensore, provò a puntare sulla volontà di ferire, piuttosto che di uccidere, e fece leva sul buon passato del Mandraffino: «È un disgraziato che merita riguardi per la sua condotta buona e gli ottimi precedenti». Infine l’avvocato Francesco Faranda, personaggio di spicco del Foro messinese in quegli anni, e presente al processo in qualità di avvocato di parte civile, definì l’imputato «vittima di quell’ambiente viziato che lo circondava», e fu il primo a chiedere che nei suoi confronti fosse applicato il beneficio delle attenuanti.
Il verdetto non si fece attendere a lungo. La giuria riconobbe all’imputato le circostanze attenuanti, con una maggioranza di 7 a 5; a fronte della richiesta di venti anni di reclusione, avanzata dal procuratore, la Corte condannava Stellario Mandraffino alla pena di sedici anni e otto mesi di reclusione, più uno di sorveglianza speciale una volta scontata la pena.

Gerardo Rizzo

lunedì 2 settembre 2019

TRA TESCHI, TOMBE VIOLATE E VARIA DIS-UMANITÀ

Curiosando tra gli appunti di Gaetano La Corte Cailler all’Archivio Comunale di Messina

Tra le carte manoscritte di La Corte Cailler in possesso dell’Archivio “Nitto Scaglione” del Comune di Messina, abbiamo avuto la ventura di ritrovare, in un fascicolo contrassegnato dalla lettera M, un suo appunto, in cui lo studioso annota come Letterio Lizio-Bruno assicuri che al cadavere di Francesco Maurolico, che dovrebbe ancora oggi essere conservato nella chiesa di San Giovanni di Malta, manchi la testa, che giovò a Giuseppe La Farina per gli studi frenologici. Cosa non si fa per la scienza e la patria?!
Rimessici dalla sorpresa (che un buontempone direbbe poter fornire una spiegazione, ancorché inconscia, agli annosi insanabili conflitti fra i due licei classici statali della città!), servendoci di un preciso riferimento dello stesso La Corte Cailler ad un fascicolo dell’ “Archivio Storico Messinese” (1906, p. 208, nota 4) contenente l’articolo di Lizio-Bruno con la nota oggetto della sua attenzione, abbiamo rintracciato l’articolo stesso, che reca il titolo “Il Petrarca e Tommaso da Messina”, da cui trascriviamo alla lettera:
Lizio-Bruno testimone della vicenda

A proposito di sepolcri violati, dirò che nel 1852 o 53 in casa La Farina in Messina io abbia veduto un gran teschio, su cui erano attaccate delle striscioline di carta, ove in carattere minutissimo l’insigne Giuseppe di quella famiglia aveva fatto, quand’era giovane, i suoi studi frenologici, con lo scriverci i nomi anatomici corrispondenti ai vari punti del teschio. E seppi allora ch’esso era stato sottratto (nella Collegiata Chiesa di San Giovanni) al sepolcro del secondo Archimede, Francesco Maurolico, gloria somma d’Italia, il quale sepolcro è nella navata destra della Chiesa anzidetta”.
Sull’attendibilità della testimonianza di Lizio-Bruno non possono esistere dubbi, come, del resto, sulla sua serietà di studioso, che qualcuno di noi aveva già cominciato a conoscere sui banchi del Maurolico, grazie a quanto di lui scrisse, sull’annuario 1960-61 del “Maurolico”, il suo professore d’Italiano, Giuseppe Sciarrone, che nel medaglione dedicatogli lo annoverò tra i primissimi insegnanti di quella scuola, definendolo “pubblicista, patriota, poeta, storico, squisito traduttore dal greco e dal latino, folklorista, bibliografo, dantista, epigrafista, scrittore di letteratura infantile”. Oltre che essere insegnante del “Maurolico”, Lizio-Bruno fu pure effettivamente amico della famiglia La Farina, com’è testimoniato anche dal fatto che dettò questa lapide per la sua tomba: IN QUEST'ARCA PER DECRETO DELLA PATRIA / RIPOSA LA SALMA DI GIUSEPPE LA FARINA / UOMO IN CUI LE VIRTU' DELL'INGEGNO EMULARONO QUELLE DEL CUORE /LETTERATO STORICO POLITICO / APOSTOLO DELL'INDIPENDENZA E UNITA' ITALIANA / ESULE E SOLDATO /COSPIRATORE MAGNANIMO E GOVERNANTE / NACQUE IN MESSINA IL 20 LUGLIO 1815 / MORI' IN TORINO IL 5 SETTEMBRE 1863
Dunque, sicuramente un tale personaggio non può essere tacciato di mendacio né di partigianeria riguardo a quanto sopra descritto.
La tomba di Maurolico
C’è da dire, d’altra parte, che il rispetto per i morti non faceva parte del DNA anche di tanti che, oltre agli studiosi, avrebbero bene dovuto averlo: ce ne accorgiamo nello stesso articolo succitato di Lizio-Bruno.A proposito di Tommaso Caloria (o Caloiro), amico del Petrarca, che dedicò al poeta messinese alcune lettere delle “Familiari”, scrive Lizio-Bruno (pp.207-208): “Ebbe sepoltura nell’antichissima Chiesa del Carmine, ch’era nella via già chiamata dei legnaiuoli (e poi fu detta Pozzo Leone), ma le sue ceneri non vi stettero in pace lungo tempo, come si legge nella Messina descritta1 di Giuseppe Buonfiglio Costanzo; il quale, toccando del sepolcro di Costantino Lascari, che, com’è noto, morì in Messina (dove tenne una scuola di greco riputatissima) scrisse così:
Non si vede per cortesia de’ Frati, che buttate via l’ossa, convertirono in altr’uso la cassa del marmo dove giacevano e parimenti, dell’illustre Pittore Polidoro e di quel Tommaso Caloria, celebre per il verso del Petrarca’2.
Come dire “i morti son morti” e di tombe c’è sempre bisogno.


Felice Irrera
e Giuseppe Iannello






1Venezia, 1606; poi Messina, 1738.
2 Così scriveva nel 1606 Buonfiglio; ma Caio Domenico Gallo, che lo cita continuamente, a p. 183 dell’Apparato agli Annali (1756), parlando della chiesa del Carmine scrisse: in essa chiesa è sepolto il famosissimo Costantino Lascari (...) come anche l’insigne pittore Polidoro e il celebre Tommaso Caloria”, come se cinquant’anni prima il Buonfiglio non avesse scritto quanto sopra riportato! Temette forse di offendere i Reverendi Padri del suo tempo dicendo la verità? Soltanto nel tomo II degli Annali del 1758 (p. 283 e 416) riferisce le notizie apprese da Buonfiglio”.

domenica 1 settembre 2019

SENZA VISIONE E MISSIONE

MANOVRE DESTRE E SINISTRE


Pel bene d’Italia
si muovono tutti,
da quelli più belli
a quelli più brutti!

C’è Renzi Matteo,
non più segretario,
che di Zingaretti
vuol fare il sicario.

Non manca Salvini
(anch’egli Matteo),
che, dopo esser stato
fin all’apogeo,

a dare il comando
è pronto persino
a Gigi, l’ameba,
(è proprio in declino!).

Ma c’è pure chi
vagheggia elezioni
e firme raccoglie:
è Giorgia Meloni!

E gli altri? Son pronti
a dare una mano,
purché ci sia congruo
buffet quotidiano!

C’è forse qualcuno
che guarda lontano,
che la direzione
segnala con mano

da qui a dieci anni?
No, certo! Perché?
C’è solo il presente:
il futuro non c’è!

Se pure usciremo
da questo casino,
torneremo presto
di tutti zerbino:

onorevoli” sono,
ma senza visione
e privi di essa
non c’è una missione!




AUTORITRATTO DI CONTE

Mi chiaman Girella
(ma è solo mediare),
non come Salvini,
il leghista lunare,

che m’ha consentito
di fare figura
sicché or m’accingo
alla forgiatura

d’un nuovo governo
da me presieduto.
Son come Arlecchino,
che porge l’aiuto

ai suoi due padroni,
(di cui uno è nuovo),
ma sono contento:
il coraggio lo trovo!

Pensate soltanto
che con la furbizia
dei grandi del mondo
ho già l’amicizia,

magari soltanto
perché parlo inglese
assai meglio di Trump,
e sono cortese.

Dirò a tutti sì,
sia in patria che altrove
e poi parlerò,
qual placido bove,

ovunque nel mondo
mi si manderà.
La mia gentilezza
sì maschererà

qualunque emergenza.
Da camaleonte,
ad ogni emergenza
saprò fare fronte!

È questo il Vangelo
al quale m’ispiro:
se trovo un ostacolo,
io presto l’aggiro!

Mi aman le piazze
e pure i potenti
perché sono attento
al soffio dei venti!

M’han detto che sono
un re Travicello:
che importa se è vero,
io uso il cervello!

È quello che manca
a sciocchi che in zuffa
finiscono ognora
ad ogni baruffa!

Lasciamo ai plebei
un comportamento
che porta soltanto
all’accrescimento

di odio e d’invidia.
Sediamoci, invece,
a un tavolo intorno
seguendo mia prece

di restare calmi,
perché il sottoscritto
(modestia mia a parte)
ha laurea in diritto

e certo saprà
(ne sono sicuro)
dei veti incrociati
infrangere il muro!

Felice Irrera