sabato 29 agosto 2020

RIVISITAZIONI: BIANCANEVE E SETTE NANI


 

Biancaneve è l’Italia di oggi:

sette nani la tengono ostaggio,

ogni giorno le fanno un oltraggio

e in catene la fanno doler!


Il più vecchio di essi è Berlusca,

il bavoso che sempre la infanga

e le impone di mettere il tanga

perché ama vederla così!


Chi poi il moccolo regge a costui

è Sallusti: dirige il Giornale

ed è un servo davvero speciale,

degno erede di Fede per lui!


Là da Bergamo-alta sproloquia,

odiatore di “sudici” e neri,

un minchione di quelli più veri:

dico Feltri ed intendo la feccia!


Di quest’ultima assai se n’intende

certo Flavio (cognome Briatore)

che pontifica a tutte le ore

su giornali e canali tivvù.


Come lui c’è una ricca donzella

che le rughe del viso ha stirato

e il lavoro degli altri ha sfruttato:

Santanchè, che poi santa non è!


Ed infine due nani che, amici,

si son poi bisticciati davvero:

son Di Maio e Salvini, il guerriero

che poi un colpo di sole stordì!


Non fu dunque la strega cattiva

che avvelenò Biancaneve:

al momento è un ostaggio, che deve

sol sperare in un liberator!

 

Felice Irrera

(agosto 2020) 

 

venerdì 7 agosto 2020

O TEMPORA! O MORES!

La preghiera a pagamento dalla Messina del Seicento ai giorni nostri.

 

Agli inizi del XVII secolo, Messina continuava a lottare con Palermo per la supremazia nell’isola e, dipendendo dalla monarchia spagnola, cercava, a suon di moneta di ingraziarsela.

A parte i soliti donativi, offerti ai nuovi sovrani che si succedevano alla morte dei precedenti allo scopo di mantenere alla città quei privilegi, molti dei quali, in realtà, falsamente costruiti, che giovavano al mantenimento di una posizione di prestigio sulle altre città dell’isola, si pregava anche molto a Messina per i sovrani, sia quando essi godevano di buona salute che quando questa era precaria e le preghiere, non c’è che dire, erano ben remunerate!

A riprova di quanto diffusa fosse in città tale pratica nel Seicento e di come il Senato di Messina fosse solito spendere allora somme veramente enormi, non solo per dotazioni di chiese, cera, arredi sacri, quadri, elemosine a conventi, riparazioni, ecc., in un numero dell’Archivio storico messinese del 1905, a firma di Virgilio Saccà, così si legge:

Nel primo giornale 1601 della Tavola, a 22 giugno, trovo che il tesoriere del Comune Gius. Maria Minutoli pagava “per conto a parti fatti depositare per Giov. Francesco Mancuso visori ad conditione che non si possano spendere senza l'ordine di S. E. unzi cento al Padre Fra Raffaele di Messina del Convento di S. Agostino per far orationi p. la lunga vita et prosperità della cattolica et regal maestà di Nostro Signore Filippo tercio et che nostro Signore li conceda prole et stirpe regale”.

Oltre alla pratica delle orazioni a pagamento, si deve proprio dire che quest’ultima frase è davvero un poema!

    Ma proseguiamo a visionare la nota, questa volta non con le parole del documento, ma con quelle proprio del Saccà, che si prova a riassumere:

A 27 di Giugno, per la identica causale si pagavano onze 30 a Fra Paolo Pizzuto procuratore del Convento del Carmine; a 27 di Luglio onze 40 a Fra Sebastiano di Messina guardiano del Convento di Santa Maria di Gesù Superiore; a 31 detto mese onze 40 a Sor Restuccia Rigoles, abbatessa del Monastero di Montevergine (pregavano anche le vergini recluse per la stirpe Regale!); a 7 di agosto onze 100 a Fra Vincenzo Donnino procuratore del Convento di S. Francesco di. Assise; a 27 di novembre onze 17 a Padre Giovanni Cardines dell'ordine della Mercè ed a 23 di luglio (II° giornale contanti) si pagavano onze 20 all' abatessa dello Spirito Santo sempre per lo stesso motivo”.

Il commentatore finge di fermarsi qui, ma, in realtà, prima di chiudere, commentando le righe precedenti, aggiunge ironico che

se si spesero circa cinquemila lire di nostra moneta per una tale preghiera viceversa poi si ebbe l'altissima consolazione di apprendere nei primi di Maggio la nascita della infante Donn'Anna Maria, primogenita di Filippo terzo, nascita che diede luogo a nuove spese per le necessarie conseguenti feste di giubilo”!

È’ vero che anche oggi i fedeli, da credenti, si affidano spesso, in varie circostanze alla preghiera, propria o anche di altri con cui condividono la fede, ma certamente non lo fanno le istituzioni cittadine, che si limitano in determinate particolari occasioni, all’offerta di ceri votivi.

Per esempio, a Messina, c’è ancora l’uso, che riprende proprio un decreto del Senato della città del 2 luglio 1777, firmato da Giovanni de Salamone, Giovanni Battista Lazzari, Piero Luigi Donato, Giuseppe Denti, Giuseppe Barone Cianciolo e Domenico Carmisino, con il quale veniva sottoscritto un impegno ad offrire in perpetuo a sant'Eustochia (Smeralda) Calafato,

il giorno 22 agosto, sacro all’ostensione del tuo corpo, o il giorno 20 gennaio della tua felicissima morte”,

un cero votivo di 38 libbre per rendere grazie e affidare alla fraterna intercessione della clarissa la Chiesa messinese e la città tutta.

Oggi, solo i singoli fedeli possono, se vogliono, affidare anche a presbiteri la cura di periodiche orazioni per i defunti o per ottenere grazie, magari effettuando delle offerte volontarie; mentre, sin dagli inizi del suo pontificato, papa Francesco ha criticato molto duramente la consuetudine di alcune parrocchie di celebrare matrimoni e battesimi dietro pagamento di una cifra ben precisa.

Decisamente, i tempi sono cambiati, ma, una volta tanto, non in peggio, anche se, naturalmente, occorre sempre guardarsi dai truffatori, che non mancano mai, come gli evangelici lupi travestiti da pecore!

Non sono certo tra questi, anche se fanno pensare, le edizioni Paoline di Roma, che, su concessione di Radio Vaticana offrono oggi, per 39,90 €, un Rosario elettronico portatile per accompagnare la recita del Rosario con la voce rassicurante e dolce di Papa Francesco.

In questo caso, però, conoscendo l’azione pastorale costantemente esercitata da S. S. e i suoi atteggiamenti nei confronti degli “ultimi”, siamo certi che il ricavato di una tale vendita verrà usato a loro esclusivo beneficio.

Felice Irrera












giovedì 23 aprile 2020

IL GALLO E L’AQUILA NELL’ERA DEL CORONA-VIRUS

Fissato ne l’idea de l’uguajanza
un gallo scrisse all’aquila: compagna,
siccome te ne stai ‘nta la montagna
bisogna ch’abolimo ‘sta distanza
perché nun è giusto né civile
ch’io stia tra la monnezza del cortile
ma sarebbe più comodo e più bello
de vive’ ner medesimo livello.
L’aquila je rispose: Amico mio,
accetto volentieri la proposta
volemo fa’ amicizia? So’ disposta
ma nun pretenne che m’abbassi io
se te senti la forza necessaria
spalanca l’ali e viettene per aria
se nun t’abbasta l’anima de’ fallo
io seguito a fa’ l’aquila e tu er gallo.”
(Trilussa)
Lungo, quasi senza fine il nastro grigio del viale che costeggia il lungomare. Messina, in questo suo tuffo nella nebbia che leggera si alza dalle sommità peloritane, è irreale e per questo bellissima, figlia di un sogno a occhi aperti. Un sogno fatto in Sicilia – direbbe Leonardo Sciascia.
La città è deserta, un vento freddo screpola le labbra, e tutto ciò dà maggior consistenza al sogno perché quel soffio sembra spingermi verso un orizzonte impalpabile. Scendo dalla macchina per entrare in farmacia nel silenzio spettrale di un pomeriggio senza colore, senza tempo, senza nulla che possa farlo somigliare a un pomeriggio.
Ed è proprio in quello che, da un punto indefinito del viale - che potrebbe essere avanti o indietro rispetto a dove mi trovo, ma forse anche per aria – ci abbiamo ormai fatto l’abitudine a quegli strani oggetti ronzanti che da giorni spiano ogni nostra mossa – ecco venir fuori una voce.
Un gracchiare, piuttosto, che dalle oscure cavità di un rudimentale megafono fissato al tetto di una bianca utilitaria, attraversato un budello contorto di tubi e di fili, esce finalmente allo scoperto ripetendo, con sincronica cadenza, una frase incomprensibile.
Incomprensibile perché la lingua, quando si attorciglia su se stessa regredendo fino alla sua forma fonemica, diventa pura materia da interpretare, codice criptico da decrittare. Succede – e di frequente – nella nostra travagliata post-modernità, quando i mostri della paura e del delirio prendono il sopravvento sul resto.
Odo una due tre volte quella voce. La capisco e non la capisco. E’ un rosario profano snocciolato per esorcizzare tutti quei mostri, renderli innocui grazie al potente rito apotropaico che mette in atto. Una formula che si propone di scacciare ogni male con la sola forza del suo arcaico terroso alfabeto.
Un alfabeto privo di senso. Ma che quel senso rincorre, eccome, con le ali sgraziate di chi si solleva in volo ma volare non può, al massimo planare a stento tra sbuffi di polvere e lezzo di pollai. Ricordate Trilussa? L’aquila non ci sta ad abbassarsi fino al gallo, se il gallo vuole esserle pari, che spicchi il volo verso le altezze vertiginose dell’aquila.
Dove c*** vai? Guarda che ti becco. Torna a casa” mi è parso di sentire. Ma non ho sentito solo questo. Ho sentito pure acredine, disprezzo. Soprattutto, ho sentito la iattanza di chi, scientemente, si diverte a perpetrare un sopruso. Lo fa dall’alto della posizione di un gallo convinto d’essere aquila perché la folla che lo sta portando in trionfo gli fa credere d’avere superato la siderale distanza che lo separa dalla regina degli uccelli.
Ma cosa succederà quando quelle ali festanti di folla, stanchi delle sue angherie, lo lasceranno precipitare al suolo?
Niente d’importante. Nessuno se ne accorgerà.
E lui sarà soltanto uno dei tanti galli che hanno sognato di diventare le aquile che non potranno mai essere.
Giuseppe Ruggeri

mercoledì 15 aprile 2020

BIZZARRIE

Spulciando tra curiosità del passato

Spigolando alla ricerca di notizie curiose su antiche pubblicazioni, ne ho trovate due in un colpo solo su un numero unico dell’Archivio storico messinese del 1905.
La prima riguarda il fatto, ben documentato dall’autore dell’articolo, Virgilio Saccà, che nel secolo XVII i morti dell’ospedale si seppellissero nudi e i loro vestiti si vendessero all’incanto. Così risulta infatti da un preciso riscontro dello studioso in data 25 settembre 1600: 
 
«A padre Francesco la Rosa onze setti e tari tritici boni per sua polisa ad Gioseppe Alifia e d. giovanne di marchisi thesoreri dell'hospitale di S. Maria della pietà di questa città dissi li paga per tanti che di loro ordine si sono pagati da Angelo Conti per li vestiti di li morti , che detto hospidale l'ha venduti a tre buci, come per l’atti not. jo Andrea caputo a 18 di lo presente».

Così commenta Saccà: “L'ospedale trovava giusto incassare il provento, e quel tale Angelo Conti, rivendugliuolo o negoziante di stracci che sia, trovava conveniente pagare circa cento lire di nostra moneta per i vestiti dei poveri morti che rivendeva poi, naturalmente, ai miserabili della città ed ai naturali del contado”.

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Ma ancora più bizzarro, almeno apparentemente, è quanto riportato nella seconda nota dallo stesso autore:

«Venerdì a 31 d' agosto - A Gioseppe Maria Minutolo thesoreri per conto dell'anno presente onze doi per sua polisa a D. Antonio di petro disse li paga in virtù di mandato jur. fattoli sotto il dì 15 maggio dell’anno presente dissero pagarceli per tanti che la città ogni anno li soli dari alla parrocchia di S. Antoni seu allo Cappellano di quella per non lassari andar li porci scapoli per li strati, quali annata si maturao a 24 di marzo prox. pass. ecc. ».

Il Comune, dunque, pagava il cappellano di Sant’Antonio perché badasse a non fare andare randagi i porci per le vie della città! E il notista si chiede come diavolo facesse il cappellano a svolgere efficacemente il suo compito igienico e civile!
Fin qui la nota dell’autore. Ma noi abbiamo approfondito un po’ la ricerca, chiedendoci innanzitutto: a chi appartenevano quei porci? Ci è venuto in mente di svolgere una breve ricerca e possiamo ora aggiungere qualche nostra deduzione.

L’iconografia del santo egiziano Antonio, vissuto tra il III e il IV secolo, lo rappresenta quasi sempre in compagnia di maiali. Ma perché, in particolare, proprio il maiale è il compagno inseparabile del santo nelle diverse sue rappresentazioni? Il fatto è che nel corso del Medioevo esso fu un animale allevato costantemente dai monaci antoniani e, secondo la tradizione, il suo grasso era un antidoto contro l'herpes zoster, noto come il fuoco di sant'Antonio. Ai monaci di quest’Ordine fu concesso il privilegio (forse da un papa?) di allevare maiali che godevano di un singolare diritto, ovvero quello di poter circolare liberamente e indisturbati per le vie di città e paesi! Ed eccoci al dunque perché si può finalmente rispondere al buon Virgilio Saccà che, pur conoscendo che il Santo era protettore dei porci, si chiedeva come facesse il Cappellano a cacciarli: era proprio il medesimo, invece, probabilmente, a portare a spasso i porci e gli si chiedeva soltanto di controllarli mentre razzolavano!

Felice Irrera


lunedì 30 marzo 2020

DIO E MARIA TRA GLI IMPUTATI


Non spargerai false dicerie
[ESODO 23,1]
Occulta e tragica calamità, il coronavirus subdolo e oscuro va sterminando popoli e nazioni. Ma esenti da esaltazioni, agiscono e si rivelano eroici testimoni, esercito schierato in battaglia: persone senza remora alcuna donatisi agli altri. Non limiti di tempo, né di spazio. Vivono solidarietà, ammirevoli, commoventi, nell’ “abbandono” e nei “distacchi” dalle proprie famiglie a pro della grande famiglia delle corsie. Medici, infermieri, volontari, uomini di governo, istituzioni, plurimi e variegati artisti, innumeri persone che, unanimi e concordi, invadono l’aere con canzoni, inni, “rumori”. Tutti infondono speranza. Altrettanti si intrattengono in costanti e fiduciose preghiere.
Sgradevole reazione, però, serpeggia inarrestabile: una interpretazione “risolutiva” che, appaga gli ispiratori certamente avulsi dalla realtà che li circonda e dai parametri di scienza e di fede. Costoro, assurti agli scranni giudiziali di sedicenti legulei, con supponenza di antiche e attuali pitonesse, siano queruli presbiteri o saputi “Christifideles laici”, forse per appagare l’innato istinto di essere ottimi lettori degli eventi e in modo particolare del coronavirus, hanno posto nel banco degli imputati Dio, la “Madonna”, il tempo:
Dio è stanco. Non ce la fa più”; “Tutto è un castigo della “Madonna”; È la fine del mondo!”.
Lo stile è quello che, secondo loro, era animatore della burbanza di atavici profeti e di occhiuti indovini. I toni di voce sospirati ed evanescenti, alternati ad arrabbiature tremebonde. Per le strade, nei condomini, negli oratori, nei mercati, nelle sacrestie, gagliardi vagabondi in uno spettacolare fuori tema: squallido, penoso, dissacrante, offensivo, “blasfemo”.
Inconsapevole retaggio di “proselitismo” alla canzone di chi, sgomento e sinceramente addolorato dinanzi alle infinite tragedie di questo mondo, nei riguardi di Maria aveva evidenziato:
Anche tu hai fatto finta di non vedere”!
Salva l’arte dell’appassionato e superlativo artista giustamente famoso nell’orbe terracqueo, l’affermazione precede (ed è seguita seppur non liricamente) gli “accusatori” di Dio, di Maria, dei millenaristi. Ma quanti tra loro devoti e pii, emeriti bacchettoni pregano Dio, si cibano di Cristo, recitano rosari, vivono il tempo?
Atteggiamenti pagani verniciati di cristianesimo?
Non è forse Amore il Dio nel quale crediamo?
Dio è amore; e chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” [1 Gv 4,16]; “Dio ha mandato il suo unigenito figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui” [1 Gv 4,9].
In tale realtà - Amore - si muovono, credenti o no. Se si rimprovera Dio come causa del coronavirus non rimangono esenti da tale condanna tutti coloro che con dedizione e amore combattono per debellarlo. È mai possibile che a Gesù, il quale si è addossato il dolore e le sofferenze dell’umanità e che “passò beneficando e benedicendo” [At 10,38] e che ha donato se stesso per gli uomini sia imputabile il coronavirus?
Come pensare che Maria, la misericordiosa, la genitrice del Misericordioso, sia alleata con il Padre e il Figlio ritenuti causa del coronavirus e della sciagura di tali e tanti strazi? Come rinnegare il suo intervento a Cana, affinché le nozze non si concludessero in un miserevole fallimento? Che non sia lei a notificare a Gesù: “Non hanno più vino” [Gv 2,31]? Come non identificare nei servi-collaboratori tutti coloro che faticano affinché l’acqua sia mutata in vino e il coronavirus lasci il posto alla salute e alla vita?
Come non rimanere attoniti ai proclami di coloro i quali ad ogni evento che reca disastri ripetono nostalgici: “È la fine del mondo!”?
A tale riguardo c’è da ripetere: “Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre” [Mt 24,36].
Se il coronavirus fosse segno della imminente fine del mondo, immaginarsi quale incoraggiamento, sostegno e speranza se ne potrebbe evincere!
Sarebbe vana, illusoria, follemente colpevole la fatica di tutti coloro i quali, e sono tanti e son molti, espongono e donano la loro vita.
A conclusione, più che mai opportune e indicative le parole di Alessandro Magno al calzolaio che criticava i calzari del grande ritratto che Apelle aveva dipinto per lui. I primi due interventi furono accolti con benevolenza. Con entusiasmo il ciabattino osò intervenire per commentare i ginocchi. Alessandro gli ordinò: “Ne supra crepidam sutor” (“Calzolaio non oltre i calzari”): “Scappareddu, stattiti mutu!”.
 
Mons. Eugenio Foti



venerdì 21 febbraio 2020

LA MACCHINA DEL FANGO A RITROSO NELLA STORIA

Oggi la si chiama così, ma siccome tale espressione altro non è che sinonimo di diffamazione, vorremmo far notare che essa è esistita da sempre ed è un trucco che si usa per eliminare gli avversari politici o gli alleati scomodi.
Volendo andare molto indietro nel tempo, prendo in prestito l’esempio che segue da una splendida conferenza di qualche anno fa di Tindaro Gatani, che fece notare come il più antico esempio documentato di manipolazione occulta dell’informazione è il Liber ad honorem Augusti (opera in distici e in tre libri della fine del XII secolo, nella quale celebrò la conquista del Regno di Sicilia, tessendo le lodi dell'Imperatore Enrico VI), di Pietro da Eboli, poeta e cronista (probabilmente un chierico) che è anche, in assoluto, la prima storia per immagini, il cui prezioso manoscritto originale è conservato presso la Burgerbiblkiothek di Berna.
Nel corso della conferenza, Tindaro Gatani, con l’aiuto dei versi e di alcune immagini originali, che qui riproponiamo, spiegò l’orribile calunnia che portò alla caduta del regno normanno di Tancredi di Lecce e all’avvento di quello svevo con Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa e sposo di Costanza di Altavilla. Tancredi è raffigurato nel manoscritto, come si può vedere, col volto di scimmia e Ursone, “medico rinomato e pieno di dignità”, mentre auspica che sia cancellato per sempre il giorno


in cui Tancredi ricevette lo scettro di re”, spiega al Poeta che quell’aborto di natura (Tancredi!) era dovuto al fatto che “non hanno depositato il loro seme in Tancredi entrambi i genitori, e, se anche lo hanno fatto, non si sono integrati bene. Il padre era un duca di sangue reale e la madre donna di stirpe modesta (…) la bassa condizione non può mischiarsi con la nobiltà”. Un “ventre vile rivomita il liquido virile e l’uomo è concepito dal solo seme materno”. “Un embrione sventurato” genera allora “un mostro detestabile”. Cosa che succede anche nel mondo animale quando una capra...


Ma per distruggere Tancredi Pietro da Eboli mira ad annientare anche i suoi più fedeli collaboratori come Matteo d’Ajello, diffamato, oltre che perché plebeo, di origini africane, brutto e bigamo (sic!), con l’accusa di pratiche stregonesche, quali quella di acquistare la sua forza lavandosi i piedi nel sangue di ragazzi fatti sgozzare dai suoi servi. Ed eccolo, appunto raffigurato con le estremità inferiori a bagno in un catino in cui un servo fa scorrere il sangue di un individuo a cui aveva appena tagliato il capo. Insomma un essere abietto. 


Siamo al massimo di un’inverosimile calunnia!
Eppure, anche grazie a Pietro da Eboli e alla sua “macchina del fango” le tre corone dell’Impero germanico, dell’Italia e della Sicilia cinsero allora una sola testa, quella appunto di Enrico VI, di cui l’autore era partigiano, e quell’atto scatenò numerose guerre in tutta Europa e fu all’origine della fine dei tre regni.
È questa, comunque, una manipolazione dell’informazione che costò molto tempo e fatica all’autore, che vi dedicò una cura particolare, forse in vista di un dono da fare all’imperatore, prospettiva che non si sa se poi effettivamente avvenuta.
Oggi, grazie ad internet, la fatica di calunniare è assai minore ed anche dei completi illetterati possono gettare fango su chiunque non per qualche scopo particolare (come nel caso del nostro Pietro), ma per dimostrare a se stessi soltanto di esistere: con la differenza che oggi ancora leggiamo i versi di Pietro e ammiriamo le miniature di questo straordinario codice, mentre le performances degli insulsi scribacchini di oggi sono scritte sulla sabbia!

Felice Irrera