martedì 23 aprile 2019

GIOVANNI MOLONIA, UNO STUDIOSO SENZA PARI

"Colpiva non solo la sua acutezza e la produzione di centinaia di ricerche di valore in campo storico e artistico, ma, anche e soprattutto, la sua estrema generosità nel supportare gli studi degli altri, che seguiva con l'identica passione con cui portava a termine i suoi: elemento molto raro a Messina"

"Commemorare" è una parola enfatica che certo a Giovanni Molonia non sarebbe piaciuta; e conoscendo il suo atteggiamento di rifiuto verso ogni retorica e la sua personale ritrosia di fronte a qualsiasi riconoscimento, so bene che, anche post mortem, avrebbe gradito, secondo la sua innata modestia, la moderazione dei toni.

Così, per qualche mese, ho taciuto, proprio per allontanare per un po’ quel sospetto di unzione liturgica che accompagna ogni commemorazione; poi ho pensato di rivalutare, invece, l'etimologia del termine "commemorare", connettendolo ad un uso nobile della memoria: una celebrazione da compiere, senza orpelli, facendo parlare il proprio cuore che, se interrogato, risponde sempre.
Ricordare a bassa voce, nel proprio profondo, un caro scomparso, fa davvero assumere alla parola un significato ed una dignità accettabile anche da Giovanni ed è quindi possibile venir meno al suo costante desiderio di riservatezza, interpretando pure, adesso, la volontà di un’intera comunità che lo ha conosciuto ed apprezzato.
È per tutto questo che, mentre il tempo va implacabilmente, ma umanamente, lenendo il dolore provocato dall’improvvisa scomparsa di Giovanni, pur avvertendo ancora come un sopruso il categorico vuoto dell’assenza fisica di un amico affettuoso, mi sento adesso di ricordarlo.
Studioso impareggiabile e schivo di palcoscenici, Giovanni era innamorato della sua città, alla quale, pur scorgendone i tanti difetti, ha dedicato tutta una vita di studi; e chi gli è stato amico può sinceramente testimoniare di aver attinto da lui, dal suo sapere e dalla sua umanità, da quella sua ansia continua di ricerca, che è poi segno distintivo, giusto e sacro nell'uomo.
Della nostra città discutevo spesso con lui, ma non della Messina entità geografica, che, pur bellissima nella sua storia e nei suoi miti, fatica ancora a rinverdire nella contemporaneità anche solo una parte dei fasti di un tempo; ma della civitas, della sua cittadinanza che oggi appare in gran parte priva d’identità, ripiegata nel ricordo, tutto provinciale e non storicizzato, quasi che solo per questo le si dovesse rendere omaggio da parte del resto del mondo.
Di questo e di molto altro parlavamo con Giovanni, dall’innata modestia nonostante l’enorme e prestigiosa mole degli scritti per i quali era conosciutissimo, quando, quasi ogni martedì (prima che lui si recasse all’Archivio Storico del Comune per svolgervi il suo compito di “esperto non retribuito”), c’incontravamo al bar Ajello e ordinavamo al gestore, secondo le stagioni, una granita o un cappuccino, sedendo ad un tavolino che ci permetteva di ammirare, alla parete in fondo, qualche nuova creazione di Pietro Mantilla.
Erano per me momenti di vero piacere intellettuale, quelli in cui mi parlava delle sue esperienze, dei suoi studi, dei suoi ricordi, trasmettendomi quel desiderio di conoscere, quell’intensa e irrefrenabile curiositas che ha contraddistinto tutta la sua vita, fin da quando, ragazzo, acquistava alla libreria Ciofalo i volumetti a buon mercato della Biblioteca Universale Rizzoli: quell’ansia di sapere non lo abbandonò mai e non si esercitava soltanto, come si può credere, in campo storico, artistico o musicale, dove era un maestro, ma anche in campo letterario, dove non mancava di seguire le nuove iniziative editoriali: ultima la bella edizione, della Salerno, della Divina Commedia, opera che entrambi consideravamo il più grande capolavoro della letteratura mondiale, da leggere proprio da parte di tutti e che, invece, malinconicamente, perdeva sempre più spazio nelle scuole italiane, come se fosse ormai “sorpassata”.
Sì, perché anche di scuola si parlava con Giovanni, che con quelle istituzioni cercava sempre d’intrattenere rapporti, offrendosi d’incontrare i ragazzi, anche i più piccoli, per far loro imparare ad amare quei libri che erano il suo tesoro e la sua vita; per dialogare con gli studenti più grandi, con passione e slancio, su fatti e personaggi di quella storia messinese di cui era assoluto padrone.
   All'Archivio Storico e alla Biblioteca Cannizzaro riusciva, con l’aiuto di un personale che gli si era affezionato, lo apprezzava e quindi lo supportava, ad organizzare eventi nonostante la mancanza di ogni disponibilità economica: non credo sia un segreto da mantenere che quasi sempre era lui stesso a far stampare a sue spese le locandine che servivano per propagandarli.
   Quante opere, poi, negli anni in cui si è occupato dei libri di questo Comune da troppi anni allo sbando, è riuscito a stampare traendole dall’oblio in cui erano cadute, dimenticate e chiuse agli studiosi! Basti citare soltanto i tre volumi, da lui ricavati con una meticolosa trascrizione, dal diario di Gaetano La Corte Cailler, e gli altri tre (di cui solo due pubblicati), tratti da un’altrettanto accurata trascrizione da giornali di fine Ottocento e primi Novecento, contenenti i moltissimi articoli disseminati in varie testate da Giuseppe Arenaprimo: ad entrambi questi studiosi e all’opera indefessa di Giovanni dobbiamo ora tante notizie che altrimenti sarebbero rimaste inesorabilmente sepolte in polverosi scaffali.
   Parlava anche con me, che poco ne ero esperto, delle vicende teatrali e musicali della città, che profondamente conosceva da bibliotecario della Filarmonica Laudamo e soprattutto da bravo amante della musica, passione questa che condivideva con la compagna di una vita, la signora Alba Crea, insegnante al Conservatorio di Messina, docente di Storia della musica per diversi anni anche nella nostra Università e apprezzata autrice di saggi in quest’ambito.
Ma ciò che colpiva particolarmente in questo studioso autentico, era non solo la sua acutezza e la produzione di centinaia di ricerche di valore in campo storico e artistico, ma, anche e soprattutto, la sua estrema generosità nel supportare gli studi degli altri, che seguiva con l'identica passione con cui portava a termine i suoi: elemento molto raro a Messina. La sua disponibilità era illimitata e più volte mi raccontò di ricevere telefonate da persone, anche del tutto sconosciute, che gli chiedevano un aiuto per le proprie ricerche o pubblicazioni, alle quali non diceva mai di no: forse perché alla base di tutto c’era sempre la curiositas; ma soprattutto perché pensava come fosse assurdo il comportamento di tanti intellettuali e appartenenti al mondo accademico, gelosissimi delle loro scoperte, che tenevano rigorosamente per sé, timorosi di “furti”.

Mi resta il piacere di possedere almeno una pubblicazione in cui ho avuto l’onore di averlo a fianco, quasi due anni fa: la prima traduzione completa dal latino (effettuata assieme al prof. Giuseppe Puzzello) della Messana illustrata del gesuita del Seicento Placido Samperi, riguardo alla quale, oltre a compilare da par suo i preziosi indici analitici che ne consentono una consultazione rapida ed efficace, fu, come al solito, largo di consigli, in veste di coordinatore editoriale, contribuendo pure, come sempre, ad una splendida e riuscitissima presentazione nella Sala delle Bandiere del Comune.
Ma ho anche il cruccio, purtroppo, di non averlo potuto vedere pienamente partecipe di un’altra nostra fatica in corso: una nuovissima traduzione, sempre dal latino, del Compendio di storia della Sicilia di Francesco Maurolico; ed ogni pagina di essa da noi lavorata ce lo ricorda amaramente.
Era davvero uno studioso “anomalo” Giovanni Molonia: anomalo per il suo sapere, che gli consentirà un posto stabile nella memoria storica di questa città (intitolargli una strada o una piazza sarebbe il minimo!); anomalo, però, anche e soprattutto, per la sua umanità, per la quale non può che rimanere nel cuore di chi, come me, avrebbe desiderato conoscerlo come vero amico assai prima, magari da sempre.
Felice Irrera








sabato 20 aprile 2019

CRONACHE DI FINE OTTOCENTO. L'avvelenatrice di Lipari

Diamo inizio ad una nuova serie di articoli dedicati a vicende che hanno fatto particolarmente scalpore a Messina sul finire del XIX secolo. La redazione è di Gerardo Rizzo.

L'avvelenatrice di Lipari

L’8 gennaio 1889 veniva tradotta al carcere di Messina, da Lipari, una certa Angelina Castellano: la donna si era resa protagonista di una vicenda che nei giorni precedenti era stata al centro dell’attenzione della popolazione cittadina. Al suo passaggio, le donne che vivevano nelle vie adiacenti, capendo di chi si trattava, uscirono in strada urlando contro la donna e insultandola, tanto che lei scoppiò in un pianto dirotto, e i carabinieri che la scortavano dovettero intervenire per difenderla.
Disegno di Arianna Aliffi
Ma cosa aveva fatto Angelina Castellano per meritare la galera? Era successo che negli ultimi giorni dell’anno che si era da poco concluso, la signora Maria Leoni, abitante al numero 72 di via del Giglio, nelle vicinanze della chiesa dei Marinai, si vide recapitare un pacco proveniente da Lipari, che conteneva dell’uva passa e un involto di carta con dei dolci. Il tutto era accompagnato da un biglietto, che ammoniva: «Cara Marietta, i dolci li mangerai tu sola senza darne a nissuno, altrimenti non ti voglio più bene, un bacio a Peppinello, molto a te. Firmato: Affezio».
La destinataria del biglietto, però, non diede molto peso a quella raccomandazione e, un po’ perché si era sotto le feste di Natale, un po’ perché dovette prevalere il principio che «occhio non vede, cuore non duole», condivise con i suoi familiari i dolci eoliani.
Avevano mangiato la metà di quei dolci quando Maria Leoni, la madre e la sorella iniziarono ad avvertire terribili dolori al ventre, e a vomitare violentemente. Si rivolsero a un farmacista, che fece prendere loro un vomitivo, ma la loro salute non migliorava.
La madre della Leoni, pur in preda a dolori lancinanti, trovò la forza di andare a sporgere denuncia. Si recò sul posto il viceispettore Filomene con una squadra di agenti di Pubblica Sicurezza, uno dei quali, il vicebrigadiere Canale, durante il sopralluogo, non seppe resistere alla vista dei dolci e prese a mangiarne, venendo assalito anche lui da vomito e atroci dolori al ventre.
La povera Marietta Leoni moriva di lì a poco, la madre e la sorella rimanevano gravi, il Canale se la cavava con poco, in base alla quantità di dolci mangiati, e quindi di veleno ingerito. Rimaneva da stabilire chi e perché avesse potuto perpetrare un così crudele delitto.
Dalle congiunte si venne a sapere che la vittima, vedova, era fidanzata con un certo Castellano di Lipari, e a giorni si sarebbe dovuto celebrare il matrimonio, che però non era ben visto da nessuna delle due famiglie. La prima ipotesi formulata dagli inquirenti fu che si potesse trattare di un delitto commesso da un terzo uomo, innamorato della donna e respinto.
Il cavaliere Restivo, Procuratore del Re, però, cambiava presto direzione alle indagini, e il giorno dopo ordinava l’arresto a Lipari di Angelina Castellano, figlia di quell’Angelo Castellano che avrebbe dovuto impalmare la «vedovella di via Giglio»: costei, vedendo in pericolo la propria eredità, aveva deciso di ricorrere al più drastico dei rimedi, «che le costerà la perdita della sua libertà per tutta la vita».
Nei giorni seguenti l’autopsia avrebbe confermato l’avvelenamento, e veniva diffusa la notizia che il vicebrigadiere Canale e le parenti della vittima erano fuori pericolo.
A Lipari venne tratta in arresto anche tale Francesca Giuffrè, che aveva portato il pacco all’ufficio postale, diventando complice della Castellano. Quest’ultima, come detto in apertura, venne condotta al carcere di Messina, dove avrebbe atteso tra le lacrime il processo che l’avrebbe tenuta dentro per un gran numero di anni.

 Gerardo Rizzo

venerdì 12 aprile 2019

PAGNOCCO E “PAGNOCCATE”


Un eroe un po’ antieroe e la rivista a lui intitolata che per sette anni ha circolato nel sottobosco intellettuale di Messina e dintorni

Piazza Pagnocco si trova a Messina nel rione Gazzi, ma probabilmente solo pochi degli abitanti della città conoscono questo personaggio, così soprannominato per via del suo fisico basso tarchiato.
In realtà, si chiamava Antonino De Salvo e partecipò sia al moto del I settembre 1847 (quando dall’allora via Austria prese il via l’insurrezione antiborbonica), che alla rivoluzione siciliana del 1848, distinguendosi come capo di un gruppo di combattenti e lottando per difendere la città contro le truppe comandate dal generale borbonico Carlo Filangeri, principe di Satriano.
Morì da eroe nella difesa del villaggio di Gazzi il 6 luglio 1848 e la sua figura fu commemorata al Parlamento siciliano di Palermo.
È Raffaele Villari (1831-1908) che, nella sua Prefazione a Cospirazione e rivolta (Tipografia D’Amico, Messina 1881), parla di lui e di altri (come Rosa Donato e Antonio Lanzetta) come della “storia dei minimi e dei dimenticati”; e, in effetti, del suo nome, legato a fatti d’arme pur importanti per Messina, non c’è traccia nelle opere dei “ragguardevoli storici”.
Il coraggio certamente non gli mancava, se è vero, come qualche cronaca del tempo tramanda, che se ne andava in giro per la città sfidando i borbonici alla testa di un manipolo di arditi combattenti con un berretto sul quale portava scritto "Vincere o morire".
Neanche doveva fargli difetto lo spirito caustico se arrivò ad "intimare la resa" al generate Pronio rinchiuso nella fortezza della Cittadella con tutta la sua "truppa macaronica".
Scrive ancora Villari: "Per sette lunghi mesi la città stette in allarme (…). Attacchi notturni s'ingaggiavano agli avamposti, dove una squadra mista di Trapanesi e Messinesi sotto gli ordini dell'animoso popolano Pagnocco, penetrava furtiva­mente negli arsenali abbandonati dai soldati napoletani, lavorava tacitamente e senza posa, sotto le bocche delle artiglierie nemiche onde impadronirsi dei grossi pezzi di obici, ivi accatastati, con che muniva le nostre batterie sovrastanti alla città".
Le cronache del tempo danno partico­lare rilevanza ad un colpo di mano che Pagnocco mise a segno sottraendo al nemico ben diciassette cannoni in una volta sola, tirandoli fuori dalle macerie dell'arsenale. Il gesto gli valse un pubblico riconoscimento. A consegnarglielo fu il comandante generale delle artiglierie, colonnello Vincenzo Giordano, che esaltò il coraggio dell'animoso popolano con queste parole: "A te Antonino De Salvo che con tutto zelo, con vero amor patrio sapesti coadiuvare la bella impresa, custo­dendo i forti, sostenendo i bravi artiglieri, concorrendo al bramato successo, a te sien riferite le lodi condegne e la cittadina gratitudine" (G. Oliva).
La mattina del 6 settembre 1848, "sopra quaranta legni di guerra e di trasporto approdavano, da Reggio", come scrive ancora il Villari, "25 battaglioni fra Svizzeri e Napoletani. Dalle batterie del Noviziato e dal castello Gonzaga i nostri artiglieri tira­vano con le colubrine contro le navi da guerra, che schierate in linea di battaglia nella marina delle Contesse, avevano cominciato a bombardare il villaggio e le campagne riverane". I volontari messinesi, accorsi dagli avamposti di Zaera, si scon­trarono al vallone Mìnissale con "non meno di 24 mila uomini fra cacciatori, artiglieria, pionieri, zappatori e pontonieri". Le popola­zioni fuggirono verso le alture a monte dei loro villaggi. Lo scontro fu "abbastanza micidiale per ambe le parti". Accorse anche Nino Pagnocco che schierò la sua squadra su una collinetta coltivata ad ulivi. Invitato a venire giù in aiuto ai volontari che "contra­stavano palmo per palmo al nemico il terreno di Minissale", lasciò il poggio dopo avere esclamato ai suoi uomini: "È da un pezzo che i nostri signori di laggiù ci chia­mano in loro difesa, e noi attendiamo neghittosi che i birri guadagnino il terreno? Vivaddio, è suonata l'ora dei valorosi!"
Frattanto gli Svizzeri si erano asserra­gliati nelle abitazioni da dove sparavano all'impazzata sui messinesi attraverso le finestre adoperate come feritoie. Pagnocco, raccolte delle scale sparse tutt'intorno nelle campagne, salì fino alla grondaia del palazzo Loffreda con l'intento di far crollare su quanti vi stavano dentro il tetto con tutte le tegole e con tutte le travi. Colpito mortal­mente, i suoi uomini, "gelosi del cadavere", lo misero su un asino e lo trasportarono sotto l'infuriare delle granate nella vicina chiesetta dei Miracoli, dove "la dimane, credesi - conclude il Villari - sia stato berteg­giato ed insultato dai borboniani, che guadagnato il villaggio San Cosimo, appic­cicarono le fiamme alla pieve".
A parte l’intitolazione della piazza, non ci risulta che i Messinesi abbiano mantenuto la memoria di questi fatti.
A più di un secolo e mezzo dalla sua morte, però, col suo nome, “Pagnocco”, nacque una rivista, che recava il sottotitolo di “Rassegna quadrimestrale di cultura e informazione”, fondata da Giuseppe Cavarra e da me (su progetto grafico di Serboli & Serboli), che durò dal 2003 (settembre/dicembre) al 2010 (settembre/dicembre). Essa si proponeva, oltre ad
una strategia basata sulla politica del confronto e del dialogo e sull’interazione tra i prodotti culturali e l’ambiente in cui essi si concretizzavano, una specifica attenzione rivolta a Messina, che offrisse ai suoi cittadini la possibilità di tradurre in presenza attiva e dinamica l’occasione di dialogo. Non era la lotta armata di Pagnocco per una libertà tutta da conquistare, ma una battaglia tutta culturale per una libertà da mantenere in un contesto mutato, certo, ma bisognoso di un impegno costante.
Non c’è però soltanto da parlare di storia riguardo a questo nomignolo, ma anche da tener presente le parlate popolari.
Giuseppe Cavarra notava, infatti, che il termine dialettale “pagnoccu” assume, secondo i luoghi della Sicilia, diversi significati: nel Palermitano esso indica la trottola che, piuttosto malandata, nel gioco si espone facilmente ai colpi di punta dell'avversario; nel Siracu­sano si registra il termine "pagnuccuni", che equivale a “mangione”; nel Ragusano designa persona piuttosto in carne e dai riflessi alquanto lenti; sulla riviera ionica messinese è usato per designare persona corpulenta, lenta a capire; a Nizza di Sicilia e a Furci Siculo, il termine "pagnoccu" è usato come soprannome; nella parlata messi­nese, infine, il significato corrente del termine è "sempliciotto", "stupido", "sciocco".
Fu proprio dal significato che al termine attribuiscono i messinesi che facemmo derivare, sulla rivista sopra menzionata, la "pagnoccata", ad indicare l'agire senza troppo discernimento, senza giudizio. Non mancammo allora, di tanto in tanto, di darne qualche esempio, avvertendo subito i nostri lettori che avremmo diviso le pagnoccate in interna­zionali (esempio George Bush e Tony Blair, con la loro sicura ricerca di armi letali, poi mai trovate, in Iraq); nazionali (Silvio Berlusconi e il suo stupefacente tentativo di baciare la mano alla sposa mussulmana del figlio del suo collega turco); regionali (l’intervento del deputato regionale Nino Beninati, che, dopo aver chiesto impe­tuosamente di aprire un dibattito riguardo al famigerato ponte sullo stretto, si è poi ammutolito di fronte ad eventi che di lui non calcolavano nemmeno l'esistenza); e municipali.
A quest’ultimo proposito, ci occupammo, fra gli altri, anche dell’allora neo-sindaco Peppino Buzzanca, che, invece di denunziare progettisti o realizzatori della tramvia, già inutilizzabile dopo un temporale, proponeva di smantellare un'opera che, oltre a cinque anni d'inferno per i cittadini, era costata 140 miliardi di vecchie lire; e anche del neo-assessore alla viabilità Bartolotta il quale, forse inconsapevole dei problemi cittadini provenendo dalla provincia, non credeva che far pagare il biglietto sui mezzi pubblici ai messinesi "furbi" potesse consentire di coprire i costi di gestione del servizio (ma un po' aiutava, o no?).
Ma la pagnoccata cittadina che meglio ricordiamo di aver descritto fu quella dell'avvocato Giuseppe Trischitta, che alle elezioni comunali del tempo, dopo aver fatico­samente recuperato, controllando una sezione dopo l'altra, quelle preferenze che in un primo tempo sembravano non averlo premiato, era riuscito finalmente a raggiun­gere la meta agognata di consigliere. Senonché, senza aver nemmeno il tempo di assaporare il raggiungimento di quest'obiettivo così ambito a Messina (città ancor oggi ai primi posti in Italia per numero di candidati alle elezioni in rapporto alla popo­lazione, evidentemente per via di un diffuso spirito di servizio nei confronti della cittadinanza), il nostro avvocato neo-consi­gliere aveva visto pioversi addosso la tegola del noto processo Buzzanca, che, se di esito infausto, con conseguente deca­denza del sindaco, avrebbe comportato l'annullamento della sua ascesa al Comune. Ecco allora spiegato quel suo sentito intervento, degno dell'oratoria cice­roniana, nel dibattito processuale sul caso Buzzanca. Riportammo allora testualmente dalla "Gazzetta del Sud" del 19 luglio 2003: "Signori giudici, ho impiegato 24 anni per diventare consigliere comunale, non posso decadere ora". E così che l'aula severa di un tribunale può tramutarsi nel palcosce­nico di una farsa, con un pubblico sordo al sentimento che sorride ironico sotto i baffi invece di plaudire, come avrebbe dovuto, allo sfogo sincero di chi non se la sente proprio di ritornare tra la folla anonima dei comuni cittadini, oltretutto per una vicenda dì cui non è responsabile. Ma c'è una giustizia al mondo. La sua rivìncita Trischitta se la prese quando i magistrati (che, non lo escludiamo, furono fortemente influen­zati dal suo patetico intervento) sentenziarono in modo favorevole al sindaco, conferendo­ così al nostro avvocato (sia pure di sponda) la certezza di poter degnamente rappresentare in Consiglio ì suoi elettori. Ma ci fu di più. La sua soddisfazione raggiunse il culmine quando i soccombenti in giudizio furono condannati anche a risarcire le spese processuali non solo a Buzzanca, ma anche al magnifico mancato principe del foro, che subito candidamente ammise che se ne sarebbe giovato per pagare il costo della propria campagna elettorale.
Come si sa, le spese, in effetti, allora come oggi, sono tante e c'è chi osa insinuare (ma noi non ci crediamo!) che esse possano talvolta financo incidere su un comportamento politico dell'eletto che poco tiene conto delle esigenze del cittadino. Non era il caso, natu­ralmente, del nostro avvocato Trischitta, al quale porgemmo allora i nostri auguri, invitandolo a non pensare troppo né al secondo né al terzo grado di giudizio che attendeva il suo sindaco: altrimenti, gli si sarebbe potuta guastare la digestione!
Purtroppo, oggi un tale protagonista dei nostri giorni messinesi non fa più parte del consiglio comunale, dopo avere tentato ultimamente, rimediando una solenne bocciatura, di diventare sindaco.
E il consiglio comunale è assai meno allegro per la mancanza delle sue “pagnoccate”!

Felice Irrera




mercoledì 3 aprile 2019

ARRIVEDERCI SIGNOR INTILLA

Ci ha lasciati... 
Michele Intilla (foto di E. Borrometi)
Avevo conosciuto Michele Intilla quando collaboravo alle pagine culturali di centonove. Era da poco uscita una delle sue opere più belle e importanti per la città di Messina, la ristampa dell’Iconologia di Placido Samperi, realizzata con la collaborazione di un altro grande messinologo recentemente scomparso, Giovanni Molonia. In quei mesi realizzavo una serie di interviste con gli editori locali, ma Intilla mi apparve subito come un personaggio diverso da tutti gli altri. Nisseno di origine, viveva da tantissimi anni a Messina, dove aveva un lungo trascorso di libraio, prima di fare il grande salto, non più limitandosi a vendere libri, ma promuovendoli e pubblicandoli.
Frequentando la sua sede, dapprima sulla via Garibaldi, poi in via Cicerone, quindi in via Ettore Lombardo Pellegrino, e infine a casa sua, quando gli era diventato troppo impegnativo uscire da casa, si potevano incontrare tutti quei personaggi che, a vario titolo, hanno collocato tasselli importanti nella costruzione del tessuto culturale e artistico di Messina. Il suo ufficio, in qualunque delle suddette sedi, era tappezzato dai quadri dei più bravi artisti cittadini, che avevano la sua sede come punto di riferimento, già dai tempi dell’associazione La Palazzata, di cui Intilla era uno dei più convinti animatori. E per quello stesso ufficio entravano e uscivano poeti, scrittori, storici, pittori.
Andarlo a trovare e farci quattro chiacchiere voleva spesso dire rispolverare aneddoti e personaggi di cui conservava preziose testimonianze nel suo ponderoso archivio, fatto di volumi e fascicoli, cartelle e faldoni etichettati sui dorsi. Lettere e documenti che raccontano squarci della vita artistica e culturale messinese e siciliana. Un archivio enorme, che, mi diceva quando lo vidi per l’ultima volta, dovrebbe essere acquisito dalla Società di Storia Patria di Caltanissetta. Di Caltanissetta, non di Messina, chissà poi perché…
Tutto rigorosamente cartaceo, perché Intilla non si era mai voluto piegare al digitale. Non aveva neppure voluto farsi fare un sito internet, così intratteneva i contatti con i suoi clienti utilizzando la posta tradizionale, scrivendo la propria corrispondenza su una macchina per scrivere portatile, con un foglio di carta carbone che gli consentiva di conservare una copia cartacea delle proprie lettere da archiviare. L’ultimo editore analogico.
È sufficiente sfogliare il suo unico catalogo cartaceo ufficiale per avere un’idea delle personalità che hanno fatto grande la sua piccola casa editrice. Non lo inizio, l’elenco, perché non riuscirei a completarlo, né avrebbe molto senso, adesso. Mi aspettavo di vedere un po’ più di roba, sui giornali messinesi. Ma tant’è, a Michele Intilla, al signor Intilla, molta pubblicità su di lui non interessava, preferiva si parlasse dei suoi libri. Arrivederci, signor Intilla.

Gerardo Rizzo