sabato 18 maggio 2019

“NON LEGGETE QUEL LIBRO!”

De gustibus. Al nostro severo recensore questo volume proprio non è andato giù
 
Qualcuno dei nostri ventiquattro lettori ricorderà forse il film Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre) che diede inizio ad una pluriennale serie cinematografica di film horror consistente, oltre che in film, anche in fumetti e videogiochi, di cui era protagonista un feroce serial killer.
Ci è venuto in mente di parafrasare quel titolo scorrendo un libro ritrovato, su una bancarella dell’usato, un po’ maltrattato, ma ancora leggibile, benché con parecchi appunti, sottolineature e punti interrogativi: Messina la capitale dimenticata, Editrice Magenes, 2018.
Non nego che il fatto di una prefazione al volume (di più di 300 pagine), scritta da Pino Aprile, da me letta subito prima di procedere all’acquisto, unitamente all’aletta di copertina (che definiva l’autore come etno-storico e scrittore messinese), e al prezzo (soli € 4,00, contro i 20 € del prezzo originario), mi abbiano convinto.
Mi sembrava poi anche di aver sentito qualche volta il nome dell’autore, Alessandro Fumia, in occasione di qualche sua conferenza.
Insomma, non feci caso più di tanto alle sottolineature alle quali ho accennato sopra, agli interrogativi e alle annotazioni (tutte, però, rigorosamente a matita, come si conviene) che costellavano il libro e lo acquistai.
Mal però me ne incolse (Era meglio morire da piccoli recita una canzone!) e dopo averlo stoicamente letto, capii che l’ignoto primo acquirente del libro, liberandosi di esso, aveva veramente voluto fuggire da un mostro! Mi limito a trascrivere un paio di note del malcapitato (che mi ha in pratica suggerito la metafora del titolo): “Un vero e proprio feroce serial killer della grammatica e della sintassi italiana, collezionista, invece che di cadaveri, di gerundi e passati prossimi, che usa, per sezionare le sue numerosissime vittime, cioè interi periodi, l’affilatissima motosega dell’improvvisazione linguistica e ortografica e della pervicace ripetizione concettuale”; “l’autore converte in paccottiglia informe i tanti documenti che, con un impegno degno di migliore interprete, è andato raccattando negli archivi del regno, cosiddetto duo siciliano” (è effettivamente suo vezzo chiamare così il regno borbonico del sud!).
Si potrebbe credere che simili giudizi stroncanti siano esagerati: per dimostrarne la veridicità basta, però, com’è capitato a me, leggere il libro del “neo-borbonico autore di tale poltiglia pseudostorica” (è sempre l’incauto primo acquirente del volume che così lo definisce), “appartenente a quella schiera di ingenue, facili vittime di astuti marpioni che affibbiano loro degli autentici mattoni come questo”.
Per quanto specificamente mi riguarda, devo dire, in verità, che a tale manipolabile compagnia, ahimè, si è rivolto coi suoi libri lo stesso ammiccante prefatore di questa davvero lacrimevole pubblicazione, Pino Aprile, che crede (o forse cerca solo di far credere?) in un meridione sempre sfruttato dal nord egemone, ma mai si chiede le cause profonde di quest’egemonia; o meglio, pensa di trovare tale risposta semplicemente nell’azione, che, ad onor del vero, anche per noi fu un vero e proprio esercizio di banditismo, grazie al quale i Savoia, aiutati da un impero inglese che cercava un grande mercato per le sue merci, si annessero il resto della penisola.
Vada indietro nel tempo, caro Aprile, e faccia altrettanto anche Lei, esimio “etno-storico” Fumia, e scoprirete che i popoli, da un lato, fanno la storia sempre eterodiretti, guidati da élites di vario genere; e dall’altro dipendono dalla storia stessa, per cui, se i meridionali hanno sempre subito dominazioni esterne ciò nasce (e ci riferiamo all’ultimo millennio) perché non hanno conosciuto, per via delle diverse signorie subite, ultima proprio quella borbonica, lo sviluppo comunale del centro-nord, che, con tutti i suoi limiti, che sono poi quelli dell’uomo, ha permesso, a loro sì, di avere una coscienza di cittadini!
Adesso il riscatto del sud (e di Messina in particolare) verrebbe, esimio scrittore (“fumoso” lo chiama l’ignoto commentatore con un gioco di parole non so quanto voluto), dall’angusto provincialismo di quanti pensano ai trascorsi fasti di una città che da tanti anni ormai è in ginocchio?
Dobbiamo ancora far riferimento, come qualcuno, tempo fa, incominciò a fare dagli schermi televisivi di un’emittente locale, ad una “messinesità” in realtà assolutamente inesistente proprio per gli eventi storici che, se anche essa ci fosse stata, l’avrebbero annientata?
Rimbocchiamoci le maniche, piuttosto; e cerchiamo d’insegnare un po’ di civismo ai nostri simili soprattutto con l’esempio, che consiste anche nel non ammantarci di titoli e meriti che assolutamente non abbiamo, né accademici, né acquisiti con un lavoro autonomo, ma privo di qualità, come quello in cui ci siamo questa volta imbattuti.
L’ignoto primo lettore di questo povero libro, pieno solo, come lui dice, di “prosopopea autoincensante”, ha voluto, dandolo via, liberarsi di un fardello di “sciocchezze mal assortite”: noi, credendo di essere con ciò nel giusto, cerchiamo di affrancarci dalla vanagloria!

Felice Irrera

mercoledì 1 maggio 2019

LETTERE DA SALINA

Il fascino della memoria nell’ultima opera narrativa di Gerardo Rizzo


Si snoda come un memoriale che rincorre, filo per segno, un’improbabile unità di spazio e di tempo il lungo racconto del protagonista di “Lettere da Salina” (Di Nicolò Edizioni, 2019). Dall’alto dei suoi cent’anni, trascorsi attraversando un secolo con tutte le sue luci e ombre, il vecchio Franco Alaimo imbastisce la rappresentazione della sua vita. Di un se stesso, per meglio dire, cresciuto sullo sfondo di un’isola-madre, un luogo dell’anima impossibile da estirpare da tale rappresentazione. Un legame, il suo, tanto viscerale da costituire la trama stessa di un romanzo, il quale ha sostituito ai dialoghi che tanto abbondano - spesso anche a dismisura - nelle pagine del genere, il flusso non sempre piano dei ricordi che a volte si riducono a baleni, guizzi, fiammelle. Un materiale incandescente quello che Alaimo mette in campo, per certi versi omologabile al magma che crepita sotto il suolo di Salina, isola vulcanica, suscitando i suoi continui sommovimenti tellurici.
Pochi i dialoghi, è vero, ma molta – e comunque mai troppa – la ricchezza descrittiva grazie alla quale l’autore riesce a sbozzare personaggi propri di un mondo che appartiene solo alla memoria collettiva, mancando ormai di riscontri tangibili con l’attualità. E’ una Salina “teatro di memorie” – per dirla con Leonardo Sciascia – il proscenio di questa rappresentazione, a tratti nostalgica ma sempre presente a se stessa, scorrevole ma mai incalzante, giocata tra piani temporali diversi. Le figure che affiorano dallo spesso strato della memoria, ove sono sedimentate negli anni nei quali è maturata l’esperienza dell’io narrante, posseggono una rara plasticità che le rende quasi palpabili, simboli vivi di una dimensione solo in apparenza fluttuante, in realtà appannaggio solido della complessiva personalità del protagonista.
Storico e annalista di valore, l’autore, con logica consequenzialità, traccia un puntuale ‘excursus’ di alcuni avvenimenti del secolo scorso. Un secolo di guerre e cataclismi, di eccidi e grandi rivoluzioni civili e culturali, vissuto attraverso gli occhi e la coscienza di chi, pur dall’apparente marginalità della sua condizione insulare, tutto questo ha potuto respirare.
Ma non è solo quella storica la cifra caratterizzante il romanzo, perché a connotare il testo sono indubbiamente anche il concetto d’identità, il senso della famiglia, le tradizioni tramandate di generazione, il rapporto tra padri e figli. Intriso, quest’ultimo, da una profonda tragicità, come peraltro emerge dalla parte finale del romanzo, per l’irreparabilità delle crepe che vi s’instaurano e che segnano profondamente la vita del protagonista.
Vivace e suggestiva l’ambientazione, che restituisce al lettore l’intenso legame dei personaggi con la natura circostante, in una sorta di “realismo magico” – sulle impronte di Giuseppe Bonaviri - pullulante di streghe volanti e alberi che si animano per proteggere i naviganti dalla furia del mare. Il tutto inserito in un quadro complessivo dove non è più possibile, a un certo punto, separare il chi dal cosa, la natura dalla divinità, il mistero dalla luce della rivelazione.
Lo stile è asciutto ed elegante, in linea con il rigore scientifico dell’autore, il quale non consente mai che lo straripare delle emozioni possa in alcun modo incrinare il fluire della narrazione. E di emozioni abbonda questo testo intensamente rievocativo, che cuce un disegno di voci e gesti e quadri di vita destinato ad attrarre il lettore in una potente rete empatica. Anche l’uso incidentale di locuzioni dialettali non può che ulteriormente arricchire la raffigurazione di un affresco a più tinte - non ultima quella popolare – in grado di imprimersi in modo significativo nella memoria.
Nel solco della rassegnata considerazione che il tempo toccato a ciascuno altro non è se non una necessaria parentesi da trascorrere nell’oceano di un’eternità muta e imponderabile, il protagonista, prima di festeggiare i suoi cent’anni tra canti e suoni di piazza, raduna infine intorno a sé i fantasmi del suo passato. Gli terranno compagnia sino al termine dei suoi giorni, nella consapevolezza che, se pure tutto diviene, nulla si è senza essere anche quelli che si è stati. E proprio questo sembra il senso finale della lunga lettera che il vecchio Franco Alaimo scrive a un nipote che non ha mai conosciuto e al quale affida il testimone di una vita destinata a continuare anche dopo la sua apparente sospensione temporale.

Giuseppe Ruggeri