giovedì 27 dicembre 2018

DUETTO SU QUASIMODO

Un inedito scambio epistolare tra Morabito e Miligi.

Negli anni Sessanta, ebbi come professore Giuseppe Morabito, latinista di fama internazionale, plurivincitore di molti Certamina in poesia e prosa latina, al Liceo “Maurolico” di Messina e già allora mi educò ad amare una lingua che poi, a mia volta, avrei approfondito per insegnarla, ma che ormai ha un sempre minor numero di cultori, siano essi studenti o anche insegnanti.
Giuseppe Morabito (1996)
Dopo che finalmente riuscii a raggiungere, questa volta come docente, quella scuola che mi aveva formato, andai diverse volte a trovare il mio professore, ormai in quiescenza, nel suo studio semplice e austero dove ancora, in età avanzata, continuava a comporre e a scrivere articoli di vera e propria ribellione a quello che considerava un sempre più progressivo deteriorarsi degli studi classici e un deprimente declino della razionalità sicuramente ad essi connessa.
 Conobbi, invece, Giuseppe Miligi, anche lui uomo di scuola e già in essa Preside, fine critico della letteratura contemporanea (in particolare del Futurismo), frequentatore di altri personaggi della Messina che fu (come i “ragazzi dello Jaci” Pugliatti e Quasimodo), negli ultimi anni della sua vita, quando, anche lui ormai pensionato, mi fu presentato da Peppino Cavarra, altro studioso che, come loro, ha onorato Messina.
Giuseppe Miligi
A mettere insieme due personaggi così diversi tra loro per carattere e studi (l’uno tutto proiettato nel culto dell’antichità, rifiutando quasi totalmente la modernità nel suo rinnovamento delle forme tradizionali dell’espressione; l’altro sintonizzato sul presente), ha provveduto, poco tempo fa, una mia visita in città alla splendida Biblioteca dei Padri Cappuccini di Pompei, dove ho potuto reperire, debitamente catalogato, un breve carteggio tra loro intercorso, che mi sembra molto significativo per indicare dei loro autori il carattere, gli interessi e, più in generale, l’amore per gli aspetti di una cultura considerata da ognuno di loro da diversi angoli di visuale, ma di certo in modo assai alto.
Tra le carte-Miligi, ho ritrovato un dattiloscritto, forse poi da lui pubblicato su qualche giornale o rivista, a cui ho potuto attingere materiale per questo singolare episodio, in cui egli scrive di non aver conosciuto direttamente, ma solo per fama, Morabito, fino all’inizio degli anni Novanta, anche se spesso lo incontrava la domenica, alla Messa delle otto, nella chiesa del Carmine.
L’occasione per fare conoscenza, racconta Miligi, gli fu data dalla “rivoluzione” liturgica che segnò (con grande rammarico del professore Morabito) la fine della Messa in latino, introducendo, fra l’altro, lo scambio di “un segno di pace” tra i fedeli: ed ecco che, trovandosi vicini, la rituale stretta di mano fece le veci di una formale presentazione, sicché da allora in poi si salutarono sempre.
Ed ecco che nel dicembre 1991 Morabito fermò Miligi all’uscita della chiesa, per dirgli, sorprendendolo non poco, della sua intenzione di mettere in versi latini la più nota delle liriche di Quasimodo, “Vento a Tindari”, per realizzare la quale chiedeva la sua collaborazione.
La sorpresa di Miligi si spiegava, naturalmente, col fatto che ben conosceva le riserve di Morabito su Quasimodo, al quale, in un articolo, il latinista aveva imputato l’inosservanza delle tradizionali regole della metrica. In cosa consisteva, dunque, la collaborazione richiesta?
Morabito desiderava semplicemente che Miligi gli volgesse in prosa il testo di quella lirica, in modo da rispettare le regole comuni della comunicazione del pensiero e da aderire perfettamente alle intenzioni del poeta.
Miligi, nonostante prospettasse subito al suo interlocutore le difficoltà dell’operazione, per via dell’ambiguità del linguaggio espressivo delle poetiche moderne, promise di cercare di accontentarlo e la domenica successiva, al solito appuntamento della Messa, gli consegnò (assieme ad alcune pubblicazioni) la lettera che qui riproduciamo nell’originario dattiloscritto. 

 
Messina,21 dicembre 1991
Gentile professor Morabito,
ricollegandomi al nostro incontro dell’altro giorno ed alla Sua richiesta di mettere nei termini di un discorso che abbia la conseguenzialità logica di una prosa narrativa o descrittiva il famoso Vento a Tindari di Quasimodo, Le ripeto che la cosa non solo
non è facile ma nemmeno del tutto possibile. Mi limiterò pertanto
ad avanzare delle ipotesi interpretative sperando che possano
esserLe di una qualche utilità nel lavoro di traduzione.
Le ragioni di quanto sopra detto sono quelle di cui si è parlato quel giorno e riguardano in fondo quasi tutta la poesia moderna.
Le troverà espresse nell'articolo che Pugliatti ha dedicato alla lirica in parola che direttamente lo coinvolge(come certo saprà è lui il "soave amico" evocato nell'ultima strofe).
Le mando fotocopia di una plaquette che lo riproduce assieme al
testo della poesia così come è apparsa in Acgue e terre (ho segnato in inchiostro rosso le varianti apportate nella redazione definitiva di Ed è subito sera). Come ben può vedere, nemmeno Pugliatti mette in chiaro tutte le immagini poetiche, limitandosi quasi sempre a suggerirne il senso globale:che scaturisce quasi sempre dalle suggestioni espressive più che dal significato logico delle parole: con quel tanto di ambiguità e
di soggettività che ne consegue. Ritengo così legittimo dissentire dalle interpretazioni che non poggino su dati oggettivi,riscontrabili.
Per esempio,il verso della 2ᵃ strofe "onda di suoni e amore" mi pare
possa essere inteso diversamente da come lui propone. Potrebbe contenere un'endiadi e riferirsi alla "brigata" che il poeta – tutto "assorto" com'è nei pensieri che il "vento"gli suscita - percepisce come un’"onda" "lontana"("s'allontana nell'aria")di "suoni amorosi". E' un'interpretazione - ovviamente del tutto soggettiva - che offre il vantaggio di un'agevole traduzione.
Quanto agli altri versi della 2ᵃstrofe(la lᵃnon mi pare ponga problemi):
-il tu("e tu mi prendi")come propone Pugliatti(e mi pare interpretazione autorizzata dati i suoi rapporti col poeta)va riferito ad un "fantasma femminile"(come lo dice Montale nella lettera a Pugliatti che Le accludo,da me copiata nella parte che interessa)
-male mi trassi dice,mi pare,di un distacco non volontario,dovuto alla malignità della sorte,dalla donna amata
-i tre versi finali alludono - a mio parere - alle conseguenze negative di tale distacco(nel 2°dei tre versi,rifugi potrebbe tradursi in ricordi: il poeta può solo rifugiarsi nel ricordo se vuole ritrovare quelle"dolcezze"che "un tempo" erano realtà d'ogni giorno "assidue")
Quanto alla 3strofe:
-la terra("ove ogni giorno affondo")è da intendersi metaforicamente come condizione di vita,del tutto dissonante rispetto ai "sogni" di
cui segretamente si nutre la sua poesia("segrete sillabe nutro"): segretamente perché nella dura realtà in cui il poeta si trova immerso non c'è posto per il sogno-poesia(per la "ricerca d'armonia" di cui si parla nella strofe seguente)
-i 4 versi finali sono da ricollegare all'attacco iniziale della strofe:
"A te ignota è la terra...". Cioè: tu non sai più nulla della mia vita, ne sei del tutto fuori perché ormai "altra luce ti sfoglia etc., "(rinunzio a suggerire l'equivalente logico dell'immagine, anche se il senso è abbastanza chiaro ed è,comunque,chiaramente indicato nei due versi finali: gioia non mia/riposa sul tuo grembo.
La 4ᵃ strofe:
- Per esilio Le ho già detto che va inteso come condizione di alienazione, di emarginazione: la ricerca d'armonia che connotava il sogno lontano legato all'immagine femminile si è mutata in desiderio di
morte; ogni amore che il poeta ora tenta serve solo a mascherare (è
schermo) la tristezza:non è che passo nel buio e nell'amarezza diventata
ormai cibo quotidiano (=pane).
L'ultima strofe, come la prima, non mi pare presenti difficoltà di
interpretazione.
Come vede dalla lettera che Le ho copiato, anche Montale confessa
(a Pugliatti)le sue perplessità e difficoltà di interpretazione. Curiosamente però l'immagine per lui più ermetica è quella che a me
sembra più accessibile (onda di suoni e amore) mentre sembra non
trovare particolari ostacoli a decifrare quella che mi riesce più ostica: ("altra luce ti sfoglia…").
Unisco il l° dei "Quaderni quasimodiani"di recente pubblicazione che
reca un mio saggio sul carteggio Quasimodo-Misefari. Si renderà conto
che per Quasimodo la Calabria non fu terra d'esilio come comunemente
si è inteso. L'esilio fu per lui una dimensione interiore:se lo portava sempre dietro e dentro dovunque si trovasse.
Spero di non averLa troppo delusa e mi auguro che le mie ipotesi
di lettura possano essere di qualche utilità al Suo lavoro di traduzione.
Cordialmente Suo
Giuseppe Miligi

 
Pochi giorni dopo aver ricevuto questa lettera, Morabito consegnò a Miligi la sua risposta, accompagnandola con alcuni suoi scritti di recente pubblicazione, testimonianza non solo di quanto fosse ancora attivo e fecondo l’otium della sua quiescenza e viva e reattiva la sua curiosità intellettuale, ma anche di come egli vivesse il presente col cuore e la mente sempre rivolto ai suoi amati classici.
Ed ecco la lettera del professore.

 
26 - 12 - '91
Egregio collega,
ho finito stamane di leggere le lettere a Misefari. Sapevo molto poco di lui,né ho letto alcuna sua pagina. Penso di passare in biblioteca e vedere se trovo qualcosa. Intanto ammiro la Sua acribia nell'ordinare e chiarire tanto materiale.
Cercherò di rileggere con mente più calma,ma ho poca fiducia,in me e nella mia età che preme. Son passati più di 60 anni dalla composizione del Vento a T. e il buio rimane. Penso a quel tu. Poiché altri non pensano a una donna,ma lo riferiscono a Tindari(ultimo,come Le dissi, è Giuseppe Mansi,acuto studioso come dimostrano i numerosi volumi pubblicati),io non saprei scegliere. Io non conoscevo la lettera di Montale; d'altra parte Quasimodo,col suo silenzio,aveva accettato quel che aveva proposto Pugliatti.Io non so connettere le varie parti. Se la poesia deve essere un rebus da fare impazzire,la respingo quanto posso. Q. dice che il Vento fu letto in un teatro di Genova e il pubblico sceltissimo applaudiva. Devo convincermi che il pubblico,anche raffinato e sceltissimo, è una massa di imbecilli, se applaude ciò che non ha potuto capire:dopo 60 anni si è incerti e si fantastica. Forse è più chiaro il Veltro di Dante. Vann'Anto'(passo,due tre volte al mese,davanti alla sua tomba)un giorno mi disse che Q. aveva un orecchio finissimo;io non credo molto,e lo scrissi varie volte; pensavo a quei suoi endecasillabi falsi,che ho anche citato;credo che non se ne trovi uno in tutta la letteratura nostra.
Finito l'ermetismo venne la poesia civile,e quei versetti sulla luna che tradussi in latino,senza leggi come non c'è legge in italiano. Per me,prosa. C'è un verso(e non ricordo dove possa essere), come sarebbe "nel mille novecento trentanove": versi del genere,in una poesia scherzosa,possono andare,ma dovrebbe essere rimata;fuori,e senza rime,non credo.
La mia chiusa ostilità è dovuta certo al mio insegnamento,al mio uso del latino; ma pensi al giudizio di un prof. di Italiano a Bologna,Alfredo Galletti(è nel suo Novecento); nessuno lo cita. Diversa mentalità;forse anche diversa forma delle rotelle cerebrali. Dicendo questo non intendo recar dispiacere a quanti coltivano o ammirano la poesia ermetica, che ancora mi pare continui per certe stramberie che ho letto recentemente senza capirci quasi nulla.
Lasciando questo,debbo dirLe che mi fa ridere lo strutturalismo(a p.39
del 1° Quaderno).Dieci anni fa ho visto queste stupidaggini in cose latine;non posso mandarLe il mio opuscolo relativo;se qualche volta avesse curiosità di vederlo,lo troverebbe in biblioteca(ma funziona?); cosa più recente è in "Calabria Letteraria" che può trovare in biblioteca nella sede delle riviste:l'ho scritto per i versi latini su Sciascia pubblicati sulla
Gazzetta due anni fa. L'articolo la Gazzetta non lo volle,ho dovuto un po'ampliarlo,aggiungendo qualcosa all'inizio e alla fine. Ho corretto a mano gli errori di stampa,aggiungendo un rigo saltato.
Fermarsi a contare quanti U ed A ci sono in un verso,come fa Musarra, per me è ridicolo,come è cosa stupida notare,come ha fatto una studiosa di Quasimodo,che,nei tre versetti di Ed è subito sera,nel primo verso ci sono tutte le vocali ma senza la i; nel secondo tutte senza la u;nel terzo ci sono tutte e cinque!Che miracolo!
La ringrazio della Sua,che conserverò,e di ciò che vi ha aggiunto.
In una busta avevo raccolto alcuni articoli su Q,; ora debbo cambiare busta per i nuovi arrivati. Le mando un mio fascicolo latino e due articoli in fotocopia.
Intanto buon anno a Lei e Signora con l’augurio di poterci incontrare altre volte.
Giuseppe Morabito

Erq, dunque, l’abbandono del progetto morabitiano della traduzione di “Vento a Tindari”!
Connettere le varie parti della lirica inserendovi i nessi logici mancanti era, secondo lui, un’operazione che comportava l’abuso di un’interpretazione soggettiva, che non trovava un riscontro oggettivamente certo nel testo poetico.
Per lui, insomma, era imperativo categorico per il traduttore il rispetto assoluto del pensiero dell’autore, e questo anche nel caso in cui una specifica poetica autorizzasse l’arbitrio di una libera interpretazione: avrebbe voluto avere a disposizione la diretta testimonianza di Quasimodo.
Giuseppe Miligi, nel dattiloscritto citato all’inizio, così scriveva in conclusione:
A me comunque lascia un vivo rammarico la rinuncia del prof. Morabito, la sua riluttanza a cimentarsi in un’impresa che riteneva arbitraria. Mi attendevo da lui un’operazione analoga specularmente (…) a quella di Quasimodo, che (…) aveva saputo riproporre in veste moderna gli incanti della poesia dei nostri avi greci e latini. Ma il prof. Morabito non si sentì di impegnarsi nell’operazione inversa, che forse solo lui – così perdutamente “classico” tra gli antichi classici e “totus in illis” – avrebbe potuto realizzare”.
Dopo quest’episodio, comunque, scrive ancora Miligi, “l’incontro domenicale al Carmine – il saluto, il breve scambio di cortesie – fu meno formale, ebbe toni di affabilità”.
Oggi, questi due uomini così diversi tra loro, eppur così rispettosi l’uno dell’altro, non ci sono più e ci piace pensare che, credenti quali entrambi erano, s’incontrino ancora in cielo.

 
Felice Irrera