In una lirica di più di un secolo fa di Tommaso Cannizzaro
Il 15 febbraio 1909, ad appena cinquanta giorni dal funesto terremoto che il 28 dicembre aveva raso al suolo Messina, Tommaso Cannizzaro, miracolosamente salvatosi dalla morte, pubblicò a Catania (Tipografia del Popolo) un poemetto dal titolo Per la città distrutta, poi inserito, l’anno successivo, nella silloge, uscita ancora a Catania (Tipografia Sicula Monaco e Mollica), ma con la sigla editoriale di Vincenzo Muglia, “Grido delle coscienze”, che il poeta dedicò “Ai morti, ai superstiti / de le città distrutte / ai colpevoli / del loro funesto abbandono / ai generosi / cui pietà profonda / spinse al pronto soccorso”.
Anche in questa nuova pubblicazione, si ritroveranno una ventina di poesie, composte, secondo quanto scritto dall’autore stesso, tra il 15 febbraio 1909 e il 10 marzo 1910, che Cannizzaro dedicò alla sua città, schiacciata dal sisma, ma non solo da quello. I versi di tale silloge, che sono i primi, in ordine di tempo, di un messinese sull’evento che segnò in negativo l’intera storia della città, costituendo in essa una vera e propria frattura (come, del resto, quelli del poemetto che più giù riportiamo), sanno sì d’antico, permeati come sono di classicismo di matrice carducciana, ma non hanno nulla di retorico, costituendo, invece, un vero e proprio atto d’amore per la terra natale.
In sostanza, quelli espressi dal poeta in tali liriche non sono affatto soltanto i naturali lamenti del sopravvissuto che ha perduto in un immane disastro tanti dei suoi cari, familiari e amici: i suoi versi, pur densi di umano dolore, hanno anche il colore di uno sdegno che nasce dall’essere stato testimone del vero e proprio scempio operato dall’inadeguatezza, quando non dalla malafede, di chi avrebbe dovuto provvedere al soccorso.
Ma ecco adesso il poemetto, in limpidi versi martelliani “Per la città distrutta”, suddiviso in quattro parti.
I
Vegliar le antelucane stelle coi raggi loro
parean le opposte rive di Scilla e del Peloro,
sopito era il mar limpido che Ulisse un dì varcò,
quando da l’ime viscere, come gonfio maroso,
cupamente ululando con rombo minaccioso,
con tremor violento, la terra sussultò.
In men d’una fuggevole eco di lieve squillo
con fragore assordante nel chiaro aer tranquillo
da un lembo estremo all’altro al suolo rovinar
distrutte in un istante le due città sorelle,
Zancle ed Aschene e insieme cento borgate belle
e furibondo invase i loro campi il mar.
Magion’ teatri, cupole, templi, colonne, altari,
torri sveve e normanne, castelli millenari
in monti di rottami cadder coprendo il suol;
e la terra si aperse e sprofondò ne l’onda
e gli uccelli de l’aria, legïon vagabonda,
atterriti, randagi spinsero altrove il vol.
Suonò l’alba novella di grida e di lamenti,
gemiti di feriti, rantoli di morenti,
di madri, spose, pargoli, uomini d’ogni età
tutti imploranti indarno aìta ai fuggitivi;
sotto le pietre un popolo fu di sepolti vivi
ed immane lo strazio e sorda la pietà.
E un’onda di emigranti da le case deserte
chieder salvezza al mare o alle campagne aperte
a lor tergo lasciando, avidi di un asil,
l’impervio nido dove tuttor sinistro echeggia
il sotterraneo rombo e l’incendio fiammeggia
tra le magion’ superbe dal fasto signoril.
De le macerie immense sotto la soma rude
di quante intatte vergini le belle membra ignude
sanguinarono e quanti vegliardi ivi languir!
Quante beltà scomparse dai radianti volti,
quanti sogni distrutti, quanti desir sepolti
e quante rosee labbra a un tratto illividir!
Ne la città deserta entro la notte oscura
sbatte le porte il vento tra le dirute mura
del triste loco il vento, solitario signor;
e i corvi in frotte scendono da le vette montane
a far banchetto orrendo di morte carni umane
onde il lezzo è seguito al profumo dei fior’.
In questa prima parte, si vede come il poeta sottolinei il contrasto tra la tranquillità del cielo sul limpido mare dello Stretto e il terremoto che distrugge in pochi istanti Messina e Reggio (quest’ultima chiamata Aschene, dal mitico fondatore di Reggio Askenaz, pronipote di Noè, citato nella Bibbia). L’aurora reca presto solo lamenti di feriti sfuggiti alle rovine e di sepolti ancora vivi, mentre la città intera è in fiamme: bellezza, gioventù, sogni, desideri, tutto infranto in pochi secondi! E quando la notte ridiscende solo il vento signoreggia sulle rovine.
II
Pari a lupi famelici su le scomparse vie
ecco scender dai borghi, quasi notturne arpie,
l’orda1 infame dei ladri e i saldi usci sforzar,
e frugar tra le viscere di quegli ostelli infranti
e trarne gemme ed oro e perle e diamanti
e di dita e di orecchie i morti mutilar.
Ma in tanto orror sul lido, da le navi straniere,
parver dal ciel discese russe e britanne schiere
ratte, ardite traendo a la luce del sol
da quegli enormi cumuli di sassi e di calcina
quanta lacera prole ne la città regina
del mar che lambe Reggio e il tricuspide suol!
Qui del Tamigi i figli e i figli de la Neva
qual legion celeste che da l’alto riceva
subito slancio, vennero le vittime a salvar;
fu ogni atto lor prodigio di destrezza e valore
e i loro biondi e belli volti, non visto il cuore,
con un divino raggio pareva illuminar.
Ne le sinistre tenebre de la profonda notte
rischiarate da lugubri tede non interrotte
mille barelle funebri su e giù vengono e van.
Sfilar vedi i feriti sul letto del dolore
- scena tetra e macabra da far pietà ed orrore -
giovani, vecchi e bimbi che non avran doman.
L’eco del lutto orrendo varca i vasti oceàni,
valli e monti e raggiunge i lidi più lontani,
flutti sgorgan di lagrime ovunque batta un cor.
Universale il grido suona - aìta, soccorso! -
e cento e cento popoli, de le navi sul dorso
prodigan lini e viveri e versan fiumi d’òr.
Da 1’Etna a l’Alpi piangono quante città sorelle!
e le lor braccia tendono a chi fuggì da quelle
rive e che reo destino dai suoi lari scacciò,
mentre biascica il prete una preghiera inetta
che glorifica un Nume di rabbia e di vendetta
e assèvera che i martiri il cielo fulminò.
In questa seconda parte, il quadro si fa ancora più fosco, perché compare l’orda infame degli sciacalli, attratti dalla possibilità di un facile bottino nel momento in cui nessuna forza pubblica più esisteva a frenarli e i sepolti, feriti o morti che fossero, non potevano ribellarsi. Ma ecco che, mentre costoro si abbandonano alle razzie e agli scempi, compaiono Russi e Inglesi, i primi a portare concreto aiuto agli sventurati.
Non è difficile cogliere qui uno degli aspetti più vergognosi della luttuosa vicenda, il fatto, cioè, che furono gli stranieri i primi ad arrivare e a prestare aiuto ai terremotati, non certo gli italiani mandati dal governo Giolitti.
Ma Cannizzaro insiste poi pure sul fatto che gli aiuti che giunsero provennero non dalle istituzioni nazionali, ma dalla solidarietà che arrivò alla città da tanti popoli, anche sotto forma di accoglienza dei profughi.
Non manca l’allusione finale alla “preghiera inetta” di quel prete “che glorifica un Nume di rabbia e di vendetta/e assevera che i martiri il cielo fulminò”!
III
E in tanto uopo di aìta, in tanto urger di cose,
qual diêr consiglio provvido quei cui destin prepose
alle sorti del lido cui chiudon l’Alpi e il mar?
- Nulla! - impotenti, ignavi, da l’inerzia cullati,
non navigli, non viveri, non oro, non soldati
rinvennero, ma stettero dubbiosi ad aspettar.
Mentre gemean le vittime tra la vita e la morte,
mentre con salde braccia la rutena coorte
a salvezza di quelle tutto sfidare ardì,
mentre un popol ramingo fuggia per lande e clivi,
Roma, l’aulica Roma, lasciò sepolti i vivi
pietrificando l’animo la mente isterilì.
Malgrado il cor di un Principe tutto a largir propenso,
dell’ondina del Faro il cadavere immenso
chi governa alle fiamme, ai flutti abbandonò.
Che popolo di vittime, quanta messe di morti
che man pietosa e pronta a vita avria risorti!
- colpa, vergogna infamia che perdonar non so -
Rimorso eterno incomba sul cor dei rei! Si arresta
stupito il mondo e sorge un grido di protesta
che nei venturi secoli severo echeggerà.
Tardi, scarsi, irrisorii alle misere genti
venner da l’alto aiuti poi ch’oscillâr le menti
tra l’irresolutezza e l’incapacità.
Languir lasciando i vivi e imputridire i morti
- ponete in salvo, ei dissero, solo le casse forti;
che importano le vite? già siam troppi quaggiù;
l’òr custodite e sopra l’innumere famiglia
degli estinti, o soldati, ite a far gozzoviglia,
resti sepolto pure chi a fuggir tardo fu.
Questo linguaggio udimmo sopra le frante mura
di tante umane vittime orrida sepoltura,
né allor tremò la terra né il sole si oscurò.
Registrerà la storia nel suo volume nero
per voi che lo voleste un giudizio severo
che in lettere di fuoco ovunque leggerò.
Contraddittorii gli ordini, caotici gli effetti
furono e voi, soldati, voi sotto capi inetti
oh quante volte indarno ci fu dato veder
fremer da l’impazienza di accorrere in aiuto
dei miseri languenti e con eloquio muto
i capitani in volto guatar fisi e tacer!
Dei reggitor’ d’Italia l’ipocrisia beffarda
ti presterà domani una voce bugiarda
che nel tuo nome all’aula chiami parlamentar,
con false schede, o patria, chi, ne la tua rovina,
tutto potea, non volle, o città mamertina,
né i morenti soccorrere né i vivi consolar.
Di Omero sette popoli si conteser la culla
cento la tua respingono, o coscïenza grulla,
sul suol che da la Dora fino al Simeto va.
Di te cui pose in mano la verga del comando
Italia, di Te solo, Imbelle memorando
- No, non è figlio mio! - ciascun di loro dirà.
È in questa terza parte che l’accusa alle istituzioni si fa più forte. Nessun “consiglio provvido” da parte dei governanti italiani, i quali rimasero nell’immediato immobili, senza mandare né navi, né viveri, né soldati, per cui, scrive il poeta: “Roma, l’aulica Roma lasciò sepolti i vivi”. Ed ecco, immagine potente, abbandonato dai governanti italiani alla pioggia e al fuoco, “il cadavere immenso” di Messina! Da qui un alto grido di protesta per i tardivi, scarsi e insufficienti aiuti istituzionali. E il grido del poeta raggiunge l’acme di fronte alle aberrazioni più grandi: “Languir lasciando i vivi e imputridire i morti/-ponete in salvo, ei dissero, solo le casse forti;/che importano le vite? Già siam troppi quaggiù”! È questo evidentemente un linguaggio dello stesso poeta, che aggiunge poi come gli stessi soldati fossero trattenuti dai loro ufficiali dal porgere aiuto ai “miseri languenti”. Davvero terribile!
IV
Chi potrà mai, Messina, il tuo nome obliare,
regina del Peloro, odalisca del mare,
bella come una sposa nel nuzial suo dì,
i tuoi colli incantevoli, le tue fiorite aiuole,
il lido pien di spume, i monti ebbri di sole
l’occhio de le tue donne, invidia delle Urì?
Profughi su la terra, senza pane né tetto,
i tuoi figli superstiti evocan da ogni petto
solo a vederli, a udirli, un grido di dolor.
Il vate sui tuoi ruderi temprerà la sua lira
- Ninive, Babilonia, Persepoli, Palmira
ricorderan le genti e Te quinta tra lor.
Trema la terra, il mare gonfio flagella il lido,
crolla il tetto, gli uccelli abbandonano il nido,
fugge chiunque il cupo rombo minace udì.
Figli, congiunti, amici tutto perduto abbiamo
ma dal loco natio un perenne richiamo
- Tornate, grida, o profughi, la patria vostra è qui. -
Tu lasci ne la storia pagine gloriose
che fulgon come stelle, che olezzan come rose
città del sacrificio, da la maschia virtù.
Non di vaste pianure né di tesori opima,
città libera e forte, tu fosti ognor la prima
a scuoter dei tiranni la dura servitù.
Del millenare stretto tu l’antica regina,
tu strenua domatrice de la forza angioina,
tu distrutta dal bronzo borbonico oppressor,
alto come l’esempio è il nome tuo nel mondo,
su l’ali de la gloria, d’altre glorie fecondo,
città votata al rigido Dovere ed all’Onor!
Ivi ne l’evo medio, ivi ne l’evo antico
Dicearco, Evemèro, Borelli, Maurolico
dettâr pagine eterne sotto l’azzurro ciel.
Ivi levâr le navi la gloriosa antenna
e trionfò la spada e vi fiorì la penna
e vita infuse all’Arte degli Antoni il pennel.
Addio, Messina bella, o stella del Passato,
miraggio che un istante dal mondo ha dileguato,
nessun di noi nessuno dei figli tuoi pensò
che a te volger dovesse, tristissimo tributo
un addio che suonasse quale estremo saluto
del mondo, o patria bella che il nembo flagellò.
Risorgerai nei secoli? - Nessun sa dirlo ancora;
ma dal tuo gran sepolcro forse un raggio di aurora
verrà che farà molte invidie impallidir;
Terra gentile e bella come la tua Morgana
e illuminar la notte de l’età più lontana
da l’Ande agli Appennini, da Tule al biondo Ofir.
La scritta posta dalla figlia Irene sul suo monumento funebre (realizzato da Leonardo Leonardi) al Gran Camposanto di Messina fu composta da Silvio Papalia Jerace e così recita, rendendogli del tutto giustizia:
TOMMASO CANNIZZARO
POETA POLIGLOTTA
17-8-1838 – MESSINA – 25-8-1921
SENTI’ NELLA SUA ARTE
IL TRAVAGLIO MORALE D’EUROPA
COL MAGICO VERSO
ESALTO’ L’AMORE UNIVERSALE
CONDANNO’ LA TIRANNIDE
E LE SOCIALI INGIUSTIZIE
I CANTI E LE LEGGENDE
DEL POPOLO RACCOLSE STUDIO’
MIRABILMENTE TRADUSSE
NEL SICULO IDIOMA
LA DIVINA COMMEDIA DI DANTE
Può servire oggi rileggere i versi di Cannizzaro, alcuni dei quali sono stati da noi ricordati?
Certamente, possiamo intanto ritrovare in essi gli echi delle polemiche seguite alla catastrofe, che hanno dato vita a tante pubblicazioni in occasione del centenario del terremoto e che avrebbero potuto creare lo spunto per una rinascita della città che tarda a venire.
Ma possiamo leggerli, anche e soprattutto, per uscire dal conformistico grigiore intellettuale del presente, seguendo l’esempio di chi, come Tommaso Cannizzaro, conformista non fu mai, pur mostrando costantemente un amore sconfinato per la sua città.
Quella Messina di cui il poeta, nonostante i colpevoli ritardi e gli inefficienti interventi delle istituzioni statali, auspicava così ardentemente la rinascita, giace oggi nello squallore del vuoto o comunque senza slanci apprezzabili di vitalità. I suoi cittadini subiscono, quasi rassegnati, il continuo deteriorarsi nella vita di ogni giorno dell’etica più elementare; mentre i giovani che vogliono costruirsi un futuro sono costretti, come sappiamo, ad emigrare.
Se è vero che Messina è stata ricostruita negli edifici (distrutti prima dal terremoto e poi dalla guerra), lo è stata, per colpa di una classe politica inefficiente e corrotta, in modo disordinato e soddisfacendo solo una speculazione che ne ha deturpato tante magnifiche bellezze, a partire dalle sue colline.
È mancata, e manca ancora, soprattutto la scelta di un modello di sviluppo ma, con essa, anche la volontà di ricostruire una coscienza civile non disposta a continui compromessi e a piegarsi ad uno squallido, mortificante clientelismo che oggi costituisce, purtroppo, il denominatore comune di buona parte della sua cittadinanza.
Felice Irrera