venerdì 25 giugno 2021

UN GRIDO DI DOLORE E DI RABBIA CHE ANCORA ECHEGGIA

 In una lirica di più di un secolo fa di Tommaso Cannizzaro


Il 15 febbraio 1909, ad appena cinquanta giorni dal funesto terremoto che il 28 dicembre aveva raso al suolo Messina, Tommaso Cannizzaro, miracolosamente salvatosi dalla morte, pubblicò a Catania (Tipografia del Popolo) un poemetto dal titolo Per la città distrutta, poi inserito, l’anno successivo, nella silloge, uscita ancora a Catania (Tipografia Sicula Monaco e Mollica), ma con la sigla editoriale di Vincenzo Muglia, “Grido delle coscienze”, che il poeta dedicò “Ai morti, ai superstiti / de le città distrutte / ai colpevoli / del loro funesto abbandono / ai generosi / cui pietà profonda / spinse al pronto soccorso”.

Anche in questa nuova pubblicazione, si ritroveranno una ventina di poesie, composte, secondo quanto scritto dall’autore stesso, tra il 15 febbraio 1909 e il 10 marzo 1910, che Cannizzaro dedicò alla sua città, schiacciata dal sisma, ma non solo da quello. I versi di tale silloge, che sono i primi, in ordine di tempo, di un messinese sull’evento che segnò in negativo l’intera storia della città, costituendo in essa una vera e propria frattura (come, del resto, quelli del poemetto che più giù riportiamo), sanno sì d’antico, permeati come sono di classicismo di matrice carducciana, ma non hanno nulla di retorico, costituendo, invece, un vero e proprio atto d’amore per la terra natale.

In sostanza, quelli espressi dal poeta in tali liriche non sono affatto soltanto i naturali lamenti del sopravvissuto che ha perduto in un immane disastro tanti dei suoi cari, familiari e amici: i suoi versi, pur densi di umano dolore, hanno anche il colore di uno sdegno che nasce dall’essere stato testimone del vero e proprio scempio operato dall’inadeguatezza, quando non dalla malafede, di chi avrebbe dovuto provvedere al soccorso.

Ma ecco adesso il poemetto, in limpidi versi martelliani “Per la città distrutta”, suddiviso in quattro parti.

I

Vegliar le antelucane stelle coi raggi loro

parean le opposte rive di Scilla e del Peloro,

sopito era il mar limpido che Ulisse un dì varcò,

quando da l’ime viscere, come gonfio maroso,

cupamente ululando con rombo minaccioso,

con tremor violento, la terra sussultò.


In men d’una fuggevole eco di lieve squillo

con fragore assordante nel chiaro aer tranquillo

da un lembo estremo all’altro al suolo rovinar

distrutte in un istante le due città sorelle,

Zancle ed Aschene e insieme cento borgate belle

e furibondo invase i loro campi il mar.


Magion’ teatri, cupole, templi, colonne, altari,

torri sveve e normanne, castelli millenari

in monti di rottami cadder coprendo il suol;

e la terra si aperse e sprofondò ne l’onda

e gli uccelli de l’aria, legïon vagabonda,

atterriti, randagi spinsero altrove il vol.


Suonò l’alba novella di grida e di lamenti,

gemiti di feriti, rantoli di morenti,

di madri, spose, pargoli, uomini d’ogni età

tutti imploranti indarno aìta ai fuggitivi;

sotto le pietre un popolo fu di sepolti vivi

ed immane lo strazio e sorda la pietà.


E un’onda di emigranti da le case deserte

chieder salvezza al mare o alle campagne aperte

a lor tergo lasciando, avidi di un asil,

l’impervio nido dove tuttor sinistro echeggia

il sotterraneo rombo e l’incendio fiammeggia

tra le magion’ superbe dal fasto signoril.


De le macerie immense sotto la soma rude

di quante intatte vergini le belle membra ignude

sanguinarono e quanti vegliardi ivi languir!

Quante beltà scomparse dai radianti volti,

quanti sogni distrutti, quanti desir sepolti

e quante rosee labbra a un tratto illividir!


Ne la città deserta entro la notte oscura

sbatte le porte il vento tra le dirute mura

del triste loco il vento, solitario signor;

e i corvi in frotte scendono da le vette montane

a far banchetto orrendo di morte carni umane

onde il lezzo è seguito al profumo dei fior’.

In questa prima parte, si vede come il poeta sottolinei il contrasto tra la tranquillità del cielo sul limpido mare dello Stretto e il terremoto che distrugge in pochi istanti Messina e Reggio (quest’ultima chiamata Aschene, dal mitico fondatore di Reggio Askenaz, pronipote di Noè, citato nella Bibbia). L’aurora reca presto solo lamenti di feriti sfuggiti alle rovine e di sepolti ancora vivi, mentre la città intera è in fiamme: bellezza, gioventù, sogni, desideri, tutto infranto in pochi secondi! E quando la notte ridiscende solo il vento signoreggia sulle rovine.


II

Pari a lupi famelici su le scomparse vie

ecco scender dai borghi, quasi notturne arpie,

l’orda1 infame dei ladri e i saldi usci sforzar,

e frugar tra le viscere di quegli ostelli infranti

e trarne gemme ed oro e perle e diamanti

e di dita e di orecchie i morti mutilar.


Ma in tanto orror sul lido, da le navi straniere,

parver dal ciel discese russe e britanne schiere

ratte, ardite traendo a la luce del sol

da quegli enormi cumuli di sassi e di calcina

quanta lacera prole ne la città regina

del mar che lambe Reggio e il tricuspide suol!


Qui del Tamigi i figli e i figli de la Neva

qual legion celeste che da l’alto riceva

subito slancio, vennero le vittime a salvar;

fu ogni atto lor prodigio di destrezza e valore

e i loro biondi e belli volti, non visto il cuore,

con un divino raggio pareva illuminar.


Ne le sinistre tenebre de la profonda notte

rischiarate da lugubri tede non interrotte

mille barelle funebri su e giù vengono e van.

Sfilar vedi i feriti sul letto del dolore

- scena tetra e macabra da far pietà ed orrore -

giovani, vecchi e bimbi che non avran doman.


L’eco del lutto orrendo varca i vasti oceàni,

valli e monti e raggiunge i lidi più lontani,

flutti sgorgan di lagrime ovunque batta un cor.

Universale il grido suona - aìta, soccorso! -

e cento e cento popoli, de le navi sul dorso

prodigan lini e viveri e versan fiumi d’òr.


Da 1’Etna a l’Alpi piangono quante città sorelle!

e le lor braccia tendono a chi fuggì da quelle

rive e che reo destino dai suoi lari scacciò,

mentre biascica il prete una preghiera inetta

che glorifica un Nume di rabbia e di vendetta

e assèvera che i martiri il cielo fulminò.

In questa seconda parte, il quadro si fa ancora più fosco, perché compare l’orda infame degli sciacalli, attratti dalla possibilità di un facile bottino nel momento in cui nessuna forza pubblica più esisteva a frenarli e i sepolti, feriti o morti che fossero, non potevano ribellarsi. Ma ecco che, mentre costoro si abbandonano alle razzie e agli scempi, compaiono Russi e Inglesi, i primi a portare concreto aiuto agli sventurati.

Non è difficile cogliere qui uno degli aspetti più vergognosi della luttuosa vicenda, il fatto, cioè, che furono gli stranieri i primi ad arrivare e a prestare aiuto ai terremotati, non certo gli italiani mandati dal governo Giolitti.

Ma Cannizzaro insiste poi pure sul fatto che gli aiuti che giunsero provennero non dalle istituzioni nazionali, ma dalla solidarietà che arrivò alla città da tanti popoli, anche sotto forma di accoglienza dei profughi.

Non manca l’allusione finale alla “preghiera inetta” di quel prete “che glorifica un Nume di rabbia e di vendetta/e assevera che i martiri il cielo fulminò”!


III

E in tanto uopo di aìta, in tanto urger di cose,

qual diêr consiglio provvido quei cui destin prepose

alle sorti del lido cui chiudon l’Alpi e il mar?

- Nulla! - impotenti, ignavi, da l’inerzia cullati,

non navigli, non viveri, non oro, non soldati

rinvennero, ma stettero dubbiosi ad aspettar.


Mentre gemean le vittime tra la vita e la morte,

mentre con salde braccia la rutena coorte

a salvezza di quelle tutto sfidare ardì,

mentre un popol ramingo fuggia per lande e clivi,

Roma, l’aulica Roma, lasciò sepolti i vivi

pietrificando l’animo la mente isterilì.


Malgrado il cor di un Principe tutto a largir propenso,

dell’ondina del Faro il cadavere immenso

chi governa alle fiamme, ai flutti abbandonò.

Che popolo di vittime, quanta messe di morti

che man pietosa e pronta a vita avria risorti!

- colpa, vergogna infamia che perdonar non so -


Rimorso eterno incomba sul cor dei rei! Si arresta

stupito il mondo e sorge un grido di protesta

che nei venturi secoli severo echeggerà.

Tardi, scarsi, irrisorii alle misere genti

venner da l’alto aiuti poi ch’oscillâr le menti

tra l’irresolutezza e l’incapacità.


Languir lasciando i vivi e imputridire i morti

- ponete in salvo, ei dissero, solo le casse forti;

che importano le vite? già siam troppi quaggiù;

l’òr custodite e sopra l’innumere famiglia

degli estinti, o soldati, ite a far gozzoviglia,

resti sepolto pure chi a fuggir tardo fu.


Questo linguaggio udimmo sopra le frante mura

di tante umane vittime orrida sepoltura,

né allor tremò la terra né il sole si oscurò.

Registrerà la storia nel suo volume nero

per voi che lo voleste un giudizio severo

che in lettere di fuoco ovunque leggerò.


Contraddittorii gli ordini, caotici gli effetti

furono e voi, soldati, voi sotto capi inetti

oh quante volte indarno ci fu dato veder

fremer da l’impazienza di accorrere in aiuto

dei miseri languenti e con eloquio muto

i capitani in volto guatar fisi e tacer!


Dei reggitor’ d’Italia l’ipocrisia beffarda

ti presterà domani una voce bugiarda

che nel tuo nome all’aula chiami parlamentar,

con false schede, o patria, chi, ne la tua rovina,

tutto potea, non volle, o città mamertina,

né i morenti soccorrere né i vivi consolar.


Di Omero sette popoli si conteser la culla

cento la tua respingono, o coscïenza grulla,

sul suol che da la Dora fino al Simeto va.

Di te cui pose in mano la verga del comando

Italia, di Te solo, Imbelle memorando 

- No, non è figlio mio! - ciascun di loro dirà.

È in questa terza parte che l’accusa alle istituzioni si fa più forte. Nessun “consiglio provvido” da parte dei governanti italiani, i quali rimasero nell’immediato immobili, senza mandare né navi, né viveri, né soldati, per cui, scrive il poeta: “Roma, l’aulica Roma lasciò sepolti i vivi”. Ed ecco, immagine potente, abbandonato dai governanti italiani alla pioggia e al fuoco, “il cadavere immenso” di Messina! Da qui un alto grido di protesta per i tardivi, scarsi e insufficienti aiuti istituzionali. E il grido del poeta raggiunge l’acme di fronte alle aberrazioni più grandi: “Languir lasciando i vivi e imputridire i morti/-ponete in salvo, ei dissero, solo le casse forti;/che importano le vite? Già siam troppi quaggiù”! È questo evidentemente un linguaggio dello stesso poeta, che aggiunge poi come gli stessi soldati fossero trattenuti dai loro ufficiali dal porgere aiuto ai “miseri languenti”. Davvero terribile!


IV

Chi potrà mai, Messina, il tuo nome obliare,

regina del Peloro, odalisca del mare,

bella come una sposa nel nuzial suo dì,

i tuoi colli incantevoli, le tue fiorite aiuole,

il lido pien di spume, i monti ebbri di sole

l’occhio de le tue donne, invidia delle Urì?


Profughi su la terra, senza pane né tetto,

i tuoi figli superstiti evocan da ogni petto

solo a vederli, a udirli, un grido di dolor.

Il vate sui tuoi ruderi temprerà la sua lira

- Ninive, Babilonia, Persepoli, Palmira

ricorderan le genti e Te quinta tra lor.


Trema la terra, il mare gonfio flagella il lido,

crolla il tetto, gli uccelli abbandonano il nido,

fugge chiunque il cupo rombo minace udì.

Figli, congiunti, amici tutto perduto abbiamo

ma dal loco natio un perenne richiamo

- Tornate, grida, o profughi, la patria vostra è qui. -


Tu lasci ne la storia pagine gloriose

che fulgon come stelle, che olezzan come rose

città del sacrificio, da la maschia virtù.

Non di vaste pianure né di tesori opima,

città libera e forte, tu fosti ognor la prima

a scuoter dei tiranni la dura servitù.


Del millenare stretto tu l’antica regina,

tu strenua domatrice de la forza angioina,

tu distrutta dal bronzo borbonico oppressor,

alto come l’esempio è il nome tuo nel mondo,

su l’ali de la gloria, d’altre glorie fecondo,

città votata al rigido Dovere ed all’Onor!


Ivi ne l’evo medio, ivi ne l’evo antico

Dicearco, Evemèro, Borelli, Maurolico

dettâr pagine eterne sotto l’azzurro ciel.

Ivi levâr le navi la gloriosa antenna

e trionfò la spada e vi fiorì la penna

e vita infuse all’Arte degli Antoni il pennel.


Addio, Messina bella, o stella del Passato,

miraggio che un istante dal mondo ha dileguato,

nessun di noi nessuno dei figli tuoi pensò

che a te volger dovesse, tristissimo tributo

un addio che suonasse quale estremo saluto

del mondo, o patria bella che il nembo flagellò.


Risorgerai nei secoli? - Nessun sa dirlo ancora;

ma dal tuo gran sepolcro forse un raggio di aurora

verrà che farà molte invidie impallidir;

Terra gentile e bella come la tua Morgana

e illuminar la notte de l’età più lontana

da l’Ande agli Appennini, da Tule al biondo Ofir.


La scritta posta dalla figlia Irene sul suo monumento funebre (realizzato da Leonardo Leonardi) al Gran Camposanto di Messina fu composta da Silvio Papalia Jerace e così recita, rendendogli del tutto giustizia:


TOMMASO CANNIZZARO

POETA POLIGLOTTA

17-8-1838 – MESSINA – 25-8-1921

SENTI’ NELLA SUA ARTE

IL TRAVAGLIO MORALE D’EUROPA

COL MAGICO VERSO

ESALTO’ L’AMORE UNIVERSALE

CONDANNO’ LA TIRANNIDE

E LE SOCIALI INGIUSTIZIE

I CANTI E LE LEGGENDE

DEL POPOLO RACCOLSE STUDIO’

MIRABILMENTE TRADUSSE

NEL SICULO IDIOMA

LA DIVINA COMMEDIA DI DANTE


Può servire oggi rileggere i versi di Cannizzaro, alcuni dei quali sono stati da noi ricordati?

Certamente, possiamo intanto ritrovare in essi gli echi delle polemiche seguite alla catastrofe, che hanno dato vita a tante pubblicazioni in occasione del centenario del terremoto e che avrebbero potuto creare lo spunto per una rinascita della città che tarda a venire.

Ma possiamo leggerli, anche e soprattutto, per uscire dal conformistico grigiore intellettuale del presente, seguendo l’esempio di chi, come Tommaso Cannizzaro, conformista non fu mai, pur mostrando costantemente un amore sconfinato per la sua città.

Quella Messina di cui il poeta, nonostante i colpevoli ritardi e gli inefficienti interventi delle istituzioni statali, auspicava così ardentemente la rinascita, giace oggi nello squallore del vuoto o comunque senza slanci apprezzabili di vitalità. I suoi cittadini subiscono, quasi rassegnati, il continuo deteriorarsi nella vita di ogni giorno dell’etica più elementare; mentre i giovani che vogliono costruirsi un futuro sono costretti, come sappiamo, ad emigrare.

Se è vero che Messina è stata ricostruita negli edifici (distrutti prima dal terremoto e poi dalla guerra), lo è stata, per colpa di una classe politica inefficiente e corrotta, in modo disordinato e soddisfacendo solo una speculazione che ne ha deturpato tante magnifiche bellezze, a partire dalle sue colline.

È mancata, e manca ancora, soprattutto la scelta di un modello di sviluppo ma, con essa, anche la volontà di ricostruire una coscienza civile non disposta a continui compromessi e a piegarsi ad uno squallido, mortificante clientelismo che oggi costituisce, purtroppo, il denominatore comune di buona parte della sua cittadinanza. 


Felice Irrera








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venerdì 11 giugno 2021

TOMMASO CANNIZZARO, INTELLETTUALE CONTROCCORRENTE

Poliglotta, poeta, traduttore, saggista, ma soprattutto uomo modesto e non avvezzo ai compromessi. Nel centenario della morte lo ricordiamo così...


Il 28 maggio di quest’anno, la Biblioteca Regionale Universitaria Giacomo Longo ha dedicato un evento per ricordare, in occasione del centenario della scomparsa di Tommaso Cannizzaro, l'opera forse più famosa di questo nostro illustre concittadino, che lì si conserva in originale: la traduzione siciliana della "Divina Commedia" di Dante. 

Di lui, nella Messina che tanto amò, resta traccia, oltre che nell’intitolazione di un plesso scolastico e di una via cittadina, nella Biblioteca Comunale, che gli fu dedicata e, da alcuni anni, finalmente alloggiata, in locali acconci, al Palacultura “Antonello” dove si conserva pure un epistolario della sua vasta corrispondenza, numerosi manoscritti, versi ed altre opere rimaste inedite.

Perciò, giova forse ricordare ai cittadini di Messina chi era Tommaso Cannizzaro.

Così, all’incirca quarantenne, era descritto Tommaso Cannizzaro da Angelo De Gubernatis nel suo Dizionario biografico degli scrittori contemporanei (Firenze 1879):

Amabilmente selvaggio, nella sua gentile fierezza, ora impetuoso, ora soave, è siciliano nella melodia e si direbbe nordico nelle profonde malinconie. Non cura la fama, vive da sé, dei suoi alti pensieri e dei suoi affetti generosi, per i quali si comunica volentieri e confidente a pochi eletti”.

E a cinquantotto anni così lo descriveva sul “Don Chisciotte E. Malgeri:

Egli appartiene a quella categoria di grandi che tengono celati i propri meriti e le proprie virtù anche agli amici più cari, a quei grandi che vivono solitari fra le biblioteche e le mura solitarie della propria casa, che lavorano non per l’egoismo di una commenda o di una croce, ma per la passione dell’arte, per l’amore stragrande per il bello e per il buono”.

Tale, sempre eguale a se stesso, egli dovette conservarsi nel corso della sua esistenza, se pochi giorni prima della morte a Messina così scriveva il giornale cittadino "Gazzetta della sicilia e delle Calabrie" del 21 agosto 1921, titolando "Tommaso Cannizzaro colpito da paralisi": 

(…) egli, volto soltanto ai suoi ideali di arte e di bellezza, non intese le ragioni della vita: non seppe, né volle sapere le moderne arti della réclame sapientemente organizzata; non seppe così assicurarsi quelle insperate, se pur effimere glorie di cui godono oggi scrittori mirabili solo di audacia e d’ignoranza (…). Al Cannizzaro nocque l’essere completamente poeta, privo, vale a dire, di qualunque accortezza pratica ed impermeabile alle dure illazioni che scaturiscono dalle esperienze della vita”.

Qualche mese dopo la dipartita del poeta, queste, infine, nel novembre del 1921, le parole del critico Zuppone-Strani sul giornale romano “Tribuna”:

Mi sia lecito (…) dire brevemente di Tommaso Cannizzaro, del poeta morto, or sono pochi giorni, nella sua Messina, sprofondato senza echi nel doppio nulla della morte e dell’oblio. A lui (…) mancarono, per sorgere al livello dei grandissimi, gli articoli e la compiacenza delle gazzette (…). Questo giornale aggiungerà qualche cosa poiché tutta una nobile vita, densa di opere ed integratrice della nostra cultura merita certamente di aprire qualche scia nell’indifferenza del pubblico che non lo conobbe. E non poteva conoscerlo, perché questo poeta, intollerante d’ogni volgarità, fece tutto ciò che è umanamente possibile per rimanergli ignoto (…). Una legge delle sue tavole fu che il poeta dovrebbe essere la voce anonima che tutti intendono senza curarsi donde venga (…). Ecco perché nel pubblico dei lettori il poeta ieri morto non fu mai vivo!”.

Queste poche citazioni spiegano probabilmente perché un poeta capace di esprimersi, oltre che nella sua lingua materna, in dialetto e in francese, traduttore anche da altre lingue e critico illustre della nostra città sia stato quasi del tutto dimenticato: l’innata modestia e la mancanza di spirito pratico non fecero di lui un grande, anche se, in effetti, molti sono davvero gli elementi che avrebbero potuto garantirgli una fama che poco la sua città gli riconobbe in vita e che ora risulta, per di più, oscurata dal tempo.

Era nato nella città dello Stretto il 17 agosto del 1838, da una famiglia benestante (il padre, Francesco, era senatore della città e si vantava di discendere da una famiglia patrizia spagnola). Fu istruito nelle Lettere italiane e latine dai migliori maestri locali (come Giuseppe Monastra e Vincenzo D’Amore, entrambi anche ferventi patrioti), ma non volle intraprendere quella carriera ecclesiastica che il padre e lo zio avrebbero voluto. Anzi, ben presto, forse per l’influsso dell’avvocato socialista Antonio Fulci e del padre, fu distolto dai pensieri religiosi, preferendo studi di economia, politica, diritto naturale e filosofia. Tuttavia, non volle nemmeno diventare avvocato: romanzi e poesie lo attiravano molto di più.

Poté viaggiare molto, sin da giovane (Palermo, Napoli, Roma, Firenze), affascinato com’era dalle testimonianze della storia e dell’arte, avvicinandosi pure alle idee unitarie, che si andavano al tempo sviluppando.

Dopo la morte del padre (1855) si diede anche allo studio dei suoi poeti preferiti (tra questi, soprattutto Dante, Petrarca, Tasso, Parini, Alfieri, Leopardi e, tra gli stranieri, Lamartine e Hugo), arricchendo la propria cultura ed esercitandosi nell’apprendimento di diverse lingue.

Era ancora giovanissimo quando, da patriota convinto, partecipò ai moti del 1860 al seguito di Garibaldi, arruolandosi con i Cacciatori del Faro e partecipando alla battaglia di Milazzo del 20 luglio 1860.

Lasciate le armi, riprese i suoi studi letterari e si formò, attraverso un’applicazione paziente e appassionata, da autodidatta, una cultura poliglottica di prim’ordine, apprendendo il russo, lo svedese, il magiaro, il boemo; parlando e scrivendo correttamente il francese, l’inglese, il tedesco lo spagnolo, il portoghese; senza contare che conobbe pure le antiche civiltà orientali.

La sua carriera letteraria ebbe inizio nel 1862, quando pubblicò, sotto lo pseudonimo di Oscar Ozinam Otzman, un’epistola in versi francesi Le voisin, a cui seguirono, nello stesso anno, le Ore segrete.

Il suo cospicuo patrimonio gli consentiva sempre di viaggiare molto, ma fu costretto presto a congedarsi per amministrare i beni di famiglia in seguito alla morte immatura del fratello Paolo: diverse furono, in questo periodo, le poesie d’ispirazione patriottica, come “L’alba del 27 maggio” in cui cantava le imprese di Garibaldi.

In particolare, nel 1863 il desiderio di conoscere il capo del romanticismo francese lo portò in Normandia e a Guernesey, un’isola della Manica dove restò otto giorni ospite di Victor Hugo, rimanendo poi a lui legato da cordiale e intima amicizia, come dimostra il carteggio esistente fra i due poeti: Cannizzaro divenne il traduttore più apprezzato in versi italiani di Victor Hugo.

Nel 1864, in una chiesa protestante, sposò la svizzera Maria Albertina Kubli, da cui ebbe sette figli: l’unico maschio, Francesco Adolfo, divenne presto il suo orgoglio per la vivace intelligenza, che gli permise una brillante conoscenza delle lingue straniere, sia orientali che antiche e moderne.

Si può dire che, dall’epoca del suo matrimonio, Cannizzaro si sia dedicato solo alla famiglia e allo studio, vivendo un’esistenza appartata, fatta di produzioni artistiche e di meditazioni, mentre metteva insieme pure una ricca biblioteca di letteratura italiana e straniera.

Nel 1869 si ritirò nelle sue campagne di Roccalumera, ritornando a Messina solo per brevi periodi. Oltre che dare spazio alla sua fertile ispirazione poetica, spesso andava in giro per le campagne, dedicandosi alla raccolta di minerali e fossili, ma anche alla ricerca, ascoltandoli dalla viva voce del popolo, di canti, proverbi, sentenze, racconti, che formarono nel tempo una dozzina di quaderni: i Canti popolari del messinese: al di là della mancanza in molti di questi canti dell’annotazione “scientifica” sul luogo di raccolta e sul nome del “dicitore”, è comunque di notevole importanza il fatto che studiosi famosi di folklore siciliano come Pitrè e Salomone Marino furono in continuo contatto con lui e stimarono molto le sue ricerche.

Nel 1876, dopo esser stato colpito dalla perdita di due figli ancora bambini, insofferente nei confronti delle lentezze dei mezzi di stampa dell’epoca, installò una propria tipografia, Extra moenia (cioè, fuori dalle mura, dietro la cinta muraria della città, dalle parti di via S. Marta) dalla quale uscirono poi, con straordinario e fecondo ritmo, molte delle sue opere, che si sparsero per il mondo, inviate dall’autore ad amici, a conoscenti, ad illustri personalità delle lettere, delle arti, delle scienze.

Amava far uscire spesso anonime le sue poesie, che non vennero mai messe in commercio: un atteggiamento che ne testimonia l’avversione alla materialità della vita e ad una società che gli pareva ne condensasse l’essenza; così, benché fosse notissimo e molto apprezzato in Italia e all’estero per i suoi scritti, egli, per la troppa modestia, rimase quasi sconosciuto a Messina.

Già aveva pubblicato, dopo le prime raccolte, In solitudine carmina, (1876, 1880); e presto, ravvicinate, usciranno Foglie morte (1882), In solitudine (versi scelti riveduti dall’autore,1883), Épines et roses (1884), Cianfrusaglie (1884).

Nel 1887 collaborò con la neonata rivista “La cronaca rosa”, assieme a Lodovico Fulci, Stefano Ribera ed Edoardo Boner e, nello stesso anno, con Ferdinando Puglia, fondò una rivista di scienze e lettere, “Il naturalismo”, che però vivrà poco. Anche in precedenza aveva collaborato a giornali locali, come “Fede e avvenire”, uno dei principali organi mazziniani della Sicilia. In seguito, è possibile ritrovare suoi articoli su “I Pagliacci”, la cui redazione era formata da un gruppo di socialisti messinesi; sul numero unico “Pro Calcagno e contro il domicilio coatto” (stampato dal Comitato di agitazione per l’abolizione del domicilio coatto nel 1902); su “Germinal”, settimanale socialista indipendente; e sul quindicinale anticlericale “Il pensiero moderno”.

Ma il nostro s’interessò, come si è detto, pure di cultura popolare: la maggior parte dei suoi scritti demologici apparvero nel decennio 1881-1891.

A partire dal 1890, cominciò ad avere gravi problemi alla vista, che ne ostacolarono sempre più sia la scrittura che la lettura: tuttavia, continuava a produrre e il modo con cui ci riusciva lo spiegò il poeta Vann’Antò in un discorso rivolto a docenti e alunni della scuola elementare intitolata a Cannizzaro (conservato manoscritto all’Archivio Storico Comunale):

“ (…) s’era addestrato, le notti insonni, appoggiata su una tavoletta scannellata la carta, a scriver tastando e accompagnando così la matita sulle interlinee, lungo lo spazio tra l’una e l’altra scannellatura”.

Nel 1892 escono le raccolte Tramonti, Uragani, Gouttes d’âme, Né la sua produzione poetica si arresterà, perché successivamente seguiranno: Cinis (1894); Quies (1896); Vox rerum (1900).

Moltissime le sue opere da traduttore. Tra le tante, nel 1902 ricordiamo la riduzione in versi italiani di Le Orientali ed altre poesie di V. Hugo, in cui entrò con squisita sensibilità interpretativa nell’atmosfera spirituale del poeta; la pubblicazione nel 1904 dei Cinquanta sonetti del portoghese Camoens; la traduzione dallo spagnolo nel 1907 del Poema del Cid; e nel 1917 quella delle Quartine di un poeta persiano dell’XI secolo, Umar Chagyâm.

Ma Cannizzaro non tralasciò nemmeno di avventurarsi nella filologia, esaminando una famosa novella del Boccaccio: Il lamento di Lisabetta da Messina e la leggenda del vaso di basilico nella nov. V giornata IV del Decameron.

Tra il 1903 e il 1908 pubblicò alcuni scritti di critica letteraria e storica, e nel 1904 la traduzione in terzine siciliane della Commedia di Dante, opera poderosa per la gravosità dell’impegno e l’efficacia dell’interpretazione: fu il primo a tradurre per intero la “Divina Commedia” in versi siciliani, un lavoro svolto in pochi mesi, dall’aprile all’agosto del 1900.


Nel 1910, a Catania, dove si era rifugiato dopo il terremoto del 1908, l’editore Muglia gli stampò il volumetto di versi Grido delle coscienze, firmato, per le vittime del disastro siculo-calabro. Poi, anonime, uscirono le liriche Irrealità (Catania, 1911), Étoiles pâlies (Catania, 1916) ed il volume De la polarité universelle (1919), in cui sono espressi alcuni suoi pensieri metafisici.

Nel 1914 aveva intanto perduto l’unico figlio, Francesco Adolfo, dotto studioso anche lui di lingue straniere, morto giovane, lasciando nello sconforto il poeta, oltre che la vedova e le due figlie ancora bambine.

Cannizzaro fu anche socio dell’Académie française, della Philosophical Society di Filadelfia, dell’Accademia di Coimbra, di quella di San Luca a Roma e di altre.

Sempre sostenitore della necessità di un livellamento economico tra le classi sociali, era pienamente convinto che proprio l’eccessiva sproporzione della ricchezza impediva un equilibrato sviluppo della società.

Collezionava testi d’ogni genere, sacrificando, per averli, anche delle proprietà.

Finalmente nel 1917, dopo che già in precedenza il poeta aveva espresso il desiderio di donare al Comune la sua ricca biblioteca perché si aprisse al pubblico degli studiosi, il Comune di Messina, nella persona del sindaco Antonio Martino, venendo incontro alle sue difficoltà economiche, gli diede la somma di L. 25.000 purché dopo la morte tutta la sua biblioteca (forte di quasi cinquemila volumi e di otto antiche scritture in pergamena) passasse al Comune: intanto egli avrebbe ordinato e diretto la Biblioteca stessa: si formò così la Biblioteca Comunale Popolare a lui intestata, ancora oggi esistente, ancorché fortemente accresciuta.

Come si è visto, la sua produzione fu immensa, impetuosa, instancabile ed entusiastica, con una grande varietà di forme metriche e di argomenti e gli procurò la stima di tanti: basti ricordare, tra i tanti, oltre a Carducci, gli italiani Capuana, De Amicis, Pascoli, Ada Negri, Pirandello e Rapisardi; e gli stranieri Hugo, Menéndez Pidal e Mistral.

L’Università, invece, lo ignorò, sia come professore di lettere moderne che di letterature straniere: forse, oltre al talento, aveva troppa onestà morale e intellettuale.

Fu poeta validissimo, ma il suo lavoro più arduo, per niente apprezzato dai più all’epoca, fu la già citata traduzione, in dialetto siciliano, della Divina Commedia, pubblicata nel 1904 presso l’editore Principato, ove si dichiara preliminarmente il suo proposito di "diffondere il sacro poema nel popolo", sperando così di "rialzarne l’idioma la cultura lo spirito e di "contribuire, mercé il dialetto che iniziò il volgare illustre, al più largo e sano sviluppo della coscienza nazionale”. Sostanzialmente fedele al testo, il nostro usò una sorta di ‘dialetto collettivo’, con prevalenza di quello parlato sulla costa orientale dell’isola e principalmente del messinese, ricorrendo solo di quando in quando a italianismi o a voci italiane sicilianizzate: si attende ancora di essa sia un’edizione critica che una riedizione.

Se, poco prima della dipartita (che avvenne pochi giorni dopo la scomparsa della moglie che tanto aveva amato), il Poeta, definito "ribelle", che aveva osannato le ideologie socialiste del tempo e aveva seguito le lotte civili che si susseguivano in città in nome di quell’ideale, ebbe al suo capezzale un sacerdote domenicano, Enrico Di Vita, che lo benedì prima del trapasso, avvenuto il 25 agosto del 1921, secondo alcuni fu solo per sollecitazione della cugina e non per sua espressa volontà. In realtà, egli fu, fino all’ultimo, coerente ad un panteismo idealistico, ben visibile nelle sue liriche, che non nasce già da una vocazione speculativa, ma da un’esigenza spirituale che ricerca il divino nella Natura e in cui la religione non costituisce altro che un momento della grande Realtà.

Nel discorso commemorativo letto il 27 agosto1922 al “Teatro Parisien” della sua città, tuttavia Leopoldo Nicotra osservò:

Ebbe anima col fatto naturalmente cristiana: uomo più evangelico di lui io non ho conosciuto. Se cristiani son quanti vivono d’accordo con la ragione, egli fu un vero seguace del Rabbi di Nazaret: se fosse convissuto con Gesù, si sarebbe accompagnato a Nicodemo e a Giuseppe d’Arimatea; non l’avrebbe negato e molto meno tradito. Il Rabbi, vedendolo sensibile come una donna, avrebbe comunicato a lui l’evangelio predicato alla Samaritana presso al pozzo di Giacobbe; vedendolo innocente come fanciullo, gli avrebbe risparmiato il monito: “Nisi efficiamini sicut parvuli”. 

Nel suo testamento olografo sta scritto: 

"Lascio al mondo il mio pensiero; il nome all'oblio; a tutti il mio amore". 

Giace sepolto nel Gran Camposanto




Felice Irrera