giovedì 23 aprile 2020

IL GALLO E L’AQUILA NELL’ERA DEL CORONA-VIRUS

Fissato ne l’idea de l’uguajanza
un gallo scrisse all’aquila: compagna,
siccome te ne stai ‘nta la montagna
bisogna ch’abolimo ‘sta distanza
perché nun è giusto né civile
ch’io stia tra la monnezza del cortile
ma sarebbe più comodo e più bello
de vive’ ner medesimo livello.
L’aquila je rispose: Amico mio,
accetto volentieri la proposta
volemo fa’ amicizia? So’ disposta
ma nun pretenne che m’abbassi io
se te senti la forza necessaria
spalanca l’ali e viettene per aria
se nun t’abbasta l’anima de’ fallo
io seguito a fa’ l’aquila e tu er gallo.”
(Trilussa)
Lungo, quasi senza fine il nastro grigio del viale che costeggia il lungomare. Messina, in questo suo tuffo nella nebbia che leggera si alza dalle sommità peloritane, è irreale e per questo bellissima, figlia di un sogno a occhi aperti. Un sogno fatto in Sicilia – direbbe Leonardo Sciascia.
La città è deserta, un vento freddo screpola le labbra, e tutto ciò dà maggior consistenza al sogno perché quel soffio sembra spingermi verso un orizzonte impalpabile. Scendo dalla macchina per entrare in farmacia nel silenzio spettrale di un pomeriggio senza colore, senza tempo, senza nulla che possa farlo somigliare a un pomeriggio.
Ed è proprio in quello che, da un punto indefinito del viale - che potrebbe essere avanti o indietro rispetto a dove mi trovo, ma forse anche per aria – ci abbiamo ormai fatto l’abitudine a quegli strani oggetti ronzanti che da giorni spiano ogni nostra mossa – ecco venir fuori una voce.
Un gracchiare, piuttosto, che dalle oscure cavità di un rudimentale megafono fissato al tetto di una bianca utilitaria, attraversato un budello contorto di tubi e di fili, esce finalmente allo scoperto ripetendo, con sincronica cadenza, una frase incomprensibile.
Incomprensibile perché la lingua, quando si attorciglia su se stessa regredendo fino alla sua forma fonemica, diventa pura materia da interpretare, codice criptico da decrittare. Succede – e di frequente – nella nostra travagliata post-modernità, quando i mostri della paura e del delirio prendono il sopravvento sul resto.
Odo una due tre volte quella voce. La capisco e non la capisco. E’ un rosario profano snocciolato per esorcizzare tutti quei mostri, renderli innocui grazie al potente rito apotropaico che mette in atto. Una formula che si propone di scacciare ogni male con la sola forza del suo arcaico terroso alfabeto.
Un alfabeto privo di senso. Ma che quel senso rincorre, eccome, con le ali sgraziate di chi si solleva in volo ma volare non può, al massimo planare a stento tra sbuffi di polvere e lezzo di pollai. Ricordate Trilussa? L’aquila non ci sta ad abbassarsi fino al gallo, se il gallo vuole esserle pari, che spicchi il volo verso le altezze vertiginose dell’aquila.
Dove c*** vai? Guarda che ti becco. Torna a casa” mi è parso di sentire. Ma non ho sentito solo questo. Ho sentito pure acredine, disprezzo. Soprattutto, ho sentito la iattanza di chi, scientemente, si diverte a perpetrare un sopruso. Lo fa dall’alto della posizione di un gallo convinto d’essere aquila perché la folla che lo sta portando in trionfo gli fa credere d’avere superato la siderale distanza che lo separa dalla regina degli uccelli.
Ma cosa succederà quando quelle ali festanti di folla, stanchi delle sue angherie, lo lasceranno precipitare al suolo?
Niente d’importante. Nessuno se ne accorgerà.
E lui sarà soltanto uno dei tanti galli che hanno sognato di diventare le aquile che non potranno mai essere.
Giuseppe Ruggeri

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