Un
eroe un po’ antieroe e la rivista a lui intitolata che per sette
anni ha circolato nel sottobosco intellettuale di Messina e dintorni
Piazza
Pagnocco si trova a Messina nel rione Gazzi, ma probabilmente solo
pochi degli abitanti della città conoscono questo personaggio, così
soprannominato per via del suo fisico basso tarchiato.
In
realtà, si chiamava Antonino De Salvo e partecipò sia al moto del I
settembre 1847 (quando dall’allora via Austria prese il via
l’insurrezione antiborbonica), che alla rivoluzione siciliana del
1848, distinguendosi come capo di un gruppo di combattenti e lottando
per difendere la città contro le truppe comandate dal generale
borbonico Carlo Filangeri, principe di Satriano.
Morì
da eroe nella difesa del villaggio di Gazzi il 6 luglio 1848 e la sua
figura fu commemorata al Parlamento siciliano di Palermo.
È
Raffaele Villari (1831-1908) che, nella sua Prefazione a Cospirazione
e rivolta
(Tipografia D’Amico, Messina 1881), parla di lui e di altri (come
Rosa Donato e Antonio Lanzetta) come della “storia dei minimi e dei
dimenticati”; e, in effetti, del suo nome, legato a fatti d’arme
pur importanti per Messina, non c’è traccia nelle opere dei
“ragguardevoli storici”.
Il
coraggio certamente non gli mancava, se è vero, come qualche cronaca
del tempo tramanda, che se ne andava in giro per la città sfidando i
borbonici alla testa di un manipolo di arditi combattenti
con un berretto sul quale portava scritto "Vincere o morire".
Neanche
doveva fargli difetto lo spirito caustico se arrivò ad "intimare
la resa" al generate Pronio rinchiuso nella fortezza della
Cittadella con tutta la sua "truppa macaronica".
Scrive
ancora Villari: "Per sette
lunghi
mesi la città stette in allarme (…). Attacchi notturni
s'ingaggiavano agli avamposti, dove
una squadra mista di Trapanesi e Messinesi sotto gli ordini
dell'animoso popolano Pagnocco, penetrava furtivamente negli
arsenali abbandonati dai soldati napoletani, lavorava tacitamente e
senza
posa, sotto le bocche delle artiglierie
nemiche onde impadronirsi dei grossi pezzi di obici, ivi accatastati,
con che muniva le nostre batterie sovrastanti alla città".
Le
cronache del tempo danno particolare rilevanza ad un colpo di
mano che Pagnocco mise a segno sottraendo al nemico ben diciassette
cannoni in una volta sola, tirandoli fuori dalle macerie
dell'arsenale.
Il gesto gli valse un pubblico riconoscimento.
A consegnarglielo fu il comandante generale delle artiglierie,
colonnello
Vincenzo Giordano, che esaltò
il coraggio
dell'animoso popolano con queste parole: "A te Antonino De Salvo
che con tutto zelo, con vero amor patrio sapesti
coadiuvare la bella impresa, custodendo
i forti, sostenendo i bravi artiglieri, concorrendo al bramato
successo, a te sien
riferite le lodi condegne e la cittadina gratitudine"
(G. Oliva).
La
mattina del 6 settembre 1848, "sopra quaranta
legni di guerra e di trasporto approdavano, da Reggio", come
scrive ancora il Villari, "25 battaglioni fra Svizzeri e
Napoletani. Dalle batterie del Noviziato e dal
castello Gonzaga i nostri artiglieri tiravano con le colubrine
contro le navi da guerra, che schierate in linea di battaglia nella
marina delle Contesse, avevano cominciato a bombardare il villaggio
e le campagne
riverane". I volontari messinesi, accorsi
dagli avamposti di Zaera, si scontrarono
al vallone Mìnissale
con "non meno di
24 mila uomini fra cacciatori, artiglieria, pionieri,
zappatori e pontonieri". Le popolazioni
fuggirono verso le alture a monte dei loro
villaggi. Lo scontro fu "abbastanza micidiale
per ambe le parti". Accorse anche Nino
Pagnocco che schierò la sua squadra su
una collinetta coltivata ad ulivi. Invitato a venire
giù in aiuto ai volontari che "contrastavano
palmo per palmo al nemico il terreno
di Minissale", lasciò il poggio dopo avere
esclamato ai suoi uomini: "È da un pezzo che i nostri signori
di laggiù ci chiamano in loro difesa, e noi attendiamo
neghittosi
che i birri guadagnino il terreno? Vivaddio,
è suonata l'ora dei valorosi!"
Frattanto
gli Svizzeri si erano asserragliati nelle abitazioni da dove
sparavano all'impazzata sui messinesi attraverso le finestre
adoperate come feritoie. Pagnocco, raccolte
delle scale sparse tutt'intorno nelle campagne,
salì fino alla grondaia
del palazzo
Loffreda con l'intento di far crollare su quanti vi stavano dentro il
tetto con tutte le tegole e con tutte le travi. Colpito mortalmente,
i suoi uomini, "gelosi del cadavere", lo
misero su un asino e lo trasportarono sotto
l'infuriare delle granate nella vicina chiesetta dei Miracoli, dove
"la dimane, credesi
- conclude il Villari - sia stato berteggiato
ed insultato dai borboniani, che guadagnato
il villaggio San Cosimo, appiccicarono
le fiamme alla pieve".
A
parte l’intitolazione della piazza, non ci risulta che i Messinesi
abbiano mantenuto la memoria di questi fatti.
A
più di un secolo e mezzo dalla sua morte, però, col suo nome,
“Pagnocco”, nacque una rivista, che recava il sottotitolo di
“Rassegna quadrimestrale di cultura e informazione”, fondata da
Giuseppe Cavarra e da me (su progetto grafico di Serboli & Serboli), che durò dal 2003 (settembre/dicembre) al
2010 (settembre/dicembre). Essa si proponeva, oltre ad
una strategia basata sulla politica del confronto e del dialogo e sull’interazione tra i prodotti culturali e l’ambiente in cui essi si concretizzavano, una specifica attenzione rivolta a Messina, che offrisse ai suoi cittadini la possibilità di tradurre in presenza attiva e dinamica l’occasione di dialogo. Non era la lotta armata di Pagnocco per una libertà tutta da conquistare, ma una battaglia tutta culturale per una libertà da mantenere in un contesto mutato, certo, ma bisognoso di un impegno costante.
una strategia basata sulla politica del confronto e del dialogo e sull’interazione tra i prodotti culturali e l’ambiente in cui essi si concretizzavano, una specifica attenzione rivolta a Messina, che offrisse ai suoi cittadini la possibilità di tradurre in presenza attiva e dinamica l’occasione di dialogo. Non era la lotta armata di Pagnocco per una libertà tutta da conquistare, ma una battaglia tutta culturale per una libertà da mantenere in un contesto mutato, certo, ma bisognoso di un impegno costante.
Non
c’è però soltanto da parlare di storia riguardo a questo
nomignolo, ma anche da tener presente le parlate popolari.
Giuseppe
Cavarra notava, infatti, che il termine dialettale “pagnoccu”
assume, secondo i luoghi della Sicilia, diversi significati: nel
Palermitano esso indica la trottola che, piuttosto malandata, nel
gioco si espone facilmente ai colpi di punta dell'avversario; nel
Siracusano si registra il termine "pagnuccuni", che
equivale a “mangione”; nel Ragusano designa persona piuttosto in
carne e dai riflessi alquanto lenti; sulla riviera ionica messinese è
usato per designare persona corpulenta, lenta a capire; a Nizza di
Sicilia e a Furci Siculo, il termine "pagnoccu" è usato
come soprannome; nella parlata messinese, infine, il significato
corrente del termine è "sempliciotto", "stupido",
"sciocco".
Fu
proprio dal significato che al termine
attribuiscono i messinesi che facemmo derivare, sulla rivista sopra
menzionata, la "pagnoccata", ad indicare l'agire senza
troppo discernimento, senza giudizio. Non mancammo allora, di tanto
in tanto, di darne qualche esempio, avvertendo subito i nostri
lettori che avremmo diviso le pagnoccate in internazionali
(esempio George Bush e Tony Blair, con la loro sicura ricerca di armi
letali, poi mai trovate, in Iraq); nazionali (Silvio
Berlusconi e il suo stupefacente tentativo di baciare la mano alla
sposa mussulmana del figlio del suo collega turco);
regionali (l’intervento del deputato
regionale Nino Beninati, che, dopo aver chiesto impetuosamente
di aprire un dibattito riguardo al famigerato ponte sullo stretto, si
è poi ammutolito di fronte ad eventi che di lui non calcolavano
nemmeno l'esistenza);
e municipali.
A
quest’ultimo proposito, ci occupammo, fra gli altri, anche
dell’allora neo-sindaco Peppino Buzzanca, che, invece
di denunziare progettisti o realizzatori della tramvia, già
inutilizzabile dopo un temporale, proponeva di smantellare un'opera
che, oltre a cinque anni d'inferno per i cittadini, era costata 140
miliardi di vecchie lire; e anche del neo-assessore alla viabilità
Bartolotta il quale, forse inconsapevole dei problemi cittadini
provenendo dalla provincia, non credeva che far pagare il biglietto
sui mezzi pubblici ai messinesi
"furbi" potesse consentire di coprire i costi di gestione
del servizio (ma un po' aiutava, o no?).
Ma
la pagnoccata cittadina che meglio ricordiamo di aver descritto fu
quella dell'avvocato Giuseppe Trischitta, che alle elezioni comunali
del tempo, dopo aver faticosamente recuperato, controllando una
sezione dopo l'altra, quelle preferenze che in un primo tempo
sembravano non averlo premiato, era riuscito finalmente a
raggiungere la meta agognata di consigliere. Senonché,
senza aver nemmeno il tempo di assaporare il raggiungimento di
quest'obiettivo così ambito a Messina (città ancor oggi ai primi
posti in Italia per numero di candidati alle elezioni in rapporto
alla popolazione, evidentemente per via di un diffuso spirito di
servizio nei confronti della cittadinanza), il nostro avvocato
neo-consigliere aveva visto pioversi addosso la tegola del noto
processo Buzzanca, che, se di esito infausto, con conseguente
decadenza del sindaco, avrebbe comportato l'annullamento della
sua ascesa al Comune. Ecco allora spiegato quel suo sentito
intervento, degno dell'oratoria ciceroniana, nel dibattito
processuale sul caso Buzzanca. Riportammo allora testualmente dalla
"Gazzetta del Sud" del 19 luglio 2003: "Signori
giudici, ho impiegato 24 anni per diventare consigliere comunale, non
posso decadere
ora". E così
che l'aula severa di un tribunale può tramutarsi nel palcoscenico
di una farsa, con un pubblico sordo al sentimento che sorride ironico
sotto i baffi invece di plaudire, come avrebbe dovuto, allo sfogo
sincero di chi non se la sente proprio di ritornare tra la folla
anonima dei comuni cittadini, oltretutto per una vicenda dì cui non
è responsabile. Ma c'è una giustizia al mondo. La sua rivìncita
Trischitta se la prese quando i magistrati (che, non lo escludiamo,
furono fortemente influenzati dal suo patetico intervento)
sentenziarono in modo favorevole al sindaco, conferendo così al
nostro avvocato (sia pure di sponda) la certezza di poter degnamente
rappresentare in Consiglio ì suoi elettori. Ma ci fu di più. La sua
soddisfazione raggiunse il culmine quando i soccombenti in giudizio
furono condannati
anche a risarcire le spese processuali non solo a Buzzanca, ma anche
al magnifico mancato principe del foro, che subito candidamente
ammise che se ne sarebbe giovato per pagare il costo della propria
campagna elettorale.
Come
si sa, le spese, in effetti, allora come oggi, sono tante e c'è
chi osa insinuare (ma noi non ci crediamo!) che esse possano talvolta
financo incidere su un comportamento politico dell'eletto che poco
tiene conto delle esigenze del cittadino. Non era il caso,
naturalmente, del nostro avvocato Trischitta, al quale porgemmo
allora i nostri auguri, invitandolo a non pensare troppo né al
secondo né al terzo grado di giudizio che attendeva il suo sindaco:
altrimenti, gli si sarebbe potuta guastare la digestione!
Purtroppo,
oggi un tale protagonista dei nostri giorni messinesi non fa più
parte del consiglio comunale, dopo avere tentato ultimamente,
rimediando una solenne bocciatura, di diventare sindaco.
E
il consiglio comunale è assai meno allegro per la mancanza delle sue
“pagnoccate”!
Felice
Irrera
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