venerdì 12 aprile 2019

PAGNOCCO E “PAGNOCCATE”


Un eroe un po’ antieroe e la rivista a lui intitolata che per sette anni ha circolato nel sottobosco intellettuale di Messina e dintorni

Piazza Pagnocco si trova a Messina nel rione Gazzi, ma probabilmente solo pochi degli abitanti della città conoscono questo personaggio, così soprannominato per via del suo fisico basso tarchiato.
In realtà, si chiamava Antonino De Salvo e partecipò sia al moto del I settembre 1847 (quando dall’allora via Austria prese il via l’insurrezione antiborbonica), che alla rivoluzione siciliana del 1848, distinguendosi come capo di un gruppo di combattenti e lottando per difendere la città contro le truppe comandate dal generale borbonico Carlo Filangeri, principe di Satriano.
Morì da eroe nella difesa del villaggio di Gazzi il 6 luglio 1848 e la sua figura fu commemorata al Parlamento siciliano di Palermo.
È Raffaele Villari (1831-1908) che, nella sua Prefazione a Cospirazione e rivolta (Tipografia D’Amico, Messina 1881), parla di lui e di altri (come Rosa Donato e Antonio Lanzetta) come della “storia dei minimi e dei dimenticati”; e, in effetti, del suo nome, legato a fatti d’arme pur importanti per Messina, non c’è traccia nelle opere dei “ragguardevoli storici”.
Il coraggio certamente non gli mancava, se è vero, come qualche cronaca del tempo tramanda, che se ne andava in giro per la città sfidando i borbonici alla testa di un manipolo di arditi combattenti con un berretto sul quale portava scritto "Vincere o morire".
Neanche doveva fargli difetto lo spirito caustico se arrivò ad "intimare la resa" al generate Pronio rinchiuso nella fortezza della Cittadella con tutta la sua "truppa macaronica".
Scrive ancora Villari: "Per sette lunghi mesi la città stette in allarme (…). Attacchi notturni s'ingaggiavano agli avamposti, dove una squadra mista di Trapanesi e Messinesi sotto gli ordini dell'animoso popolano Pagnocco, penetrava furtiva­mente negli arsenali abbandonati dai soldati napoletani, lavorava tacitamente e senza posa, sotto le bocche delle artiglierie nemiche onde impadronirsi dei grossi pezzi di obici, ivi accatastati, con che muniva le nostre batterie sovrastanti alla città".
Le cronache del tempo danno partico­lare rilevanza ad un colpo di mano che Pagnocco mise a segno sottraendo al nemico ben diciassette cannoni in una volta sola, tirandoli fuori dalle macerie dell'arsenale. Il gesto gli valse un pubblico riconoscimento. A consegnarglielo fu il comandante generale delle artiglierie, colonnello Vincenzo Giordano, che esaltò il coraggio dell'animoso popolano con queste parole: "A te Antonino De Salvo che con tutto zelo, con vero amor patrio sapesti coadiuvare la bella impresa, custo­dendo i forti, sostenendo i bravi artiglieri, concorrendo al bramato successo, a te sien riferite le lodi condegne e la cittadina gratitudine" (G. Oliva).
La mattina del 6 settembre 1848, "sopra quaranta legni di guerra e di trasporto approdavano, da Reggio", come scrive ancora il Villari, "25 battaglioni fra Svizzeri e Napoletani. Dalle batterie del Noviziato e dal castello Gonzaga i nostri artiglieri tira­vano con le colubrine contro le navi da guerra, che schierate in linea di battaglia nella marina delle Contesse, avevano cominciato a bombardare il villaggio e le campagne riverane". I volontari messinesi, accorsi dagli avamposti di Zaera, si scon­trarono al vallone Mìnissale con "non meno di 24 mila uomini fra cacciatori, artiglieria, pionieri, zappatori e pontonieri". Le popola­zioni fuggirono verso le alture a monte dei loro villaggi. Lo scontro fu "abbastanza micidiale per ambe le parti". Accorse anche Nino Pagnocco che schierò la sua squadra su una collinetta coltivata ad ulivi. Invitato a venire giù in aiuto ai volontari che "contra­stavano palmo per palmo al nemico il terreno di Minissale", lasciò il poggio dopo avere esclamato ai suoi uomini: "È da un pezzo che i nostri signori di laggiù ci chia­mano in loro difesa, e noi attendiamo neghittosi che i birri guadagnino il terreno? Vivaddio, è suonata l'ora dei valorosi!"
Frattanto gli Svizzeri si erano asserra­gliati nelle abitazioni da dove sparavano all'impazzata sui messinesi attraverso le finestre adoperate come feritoie. Pagnocco, raccolte delle scale sparse tutt'intorno nelle campagne, salì fino alla grondaia del palazzo Loffreda con l'intento di far crollare su quanti vi stavano dentro il tetto con tutte le tegole e con tutte le travi. Colpito mortal­mente, i suoi uomini, "gelosi del cadavere", lo misero su un asino e lo trasportarono sotto l'infuriare delle granate nella vicina chiesetta dei Miracoli, dove "la dimane, credesi - conclude il Villari - sia stato berteg­giato ed insultato dai borboniani, che guadagnato il villaggio San Cosimo, appic­cicarono le fiamme alla pieve".
A parte l’intitolazione della piazza, non ci risulta che i Messinesi abbiano mantenuto la memoria di questi fatti.
A più di un secolo e mezzo dalla sua morte, però, col suo nome, “Pagnocco”, nacque una rivista, che recava il sottotitolo di “Rassegna quadrimestrale di cultura e informazione”, fondata da Giuseppe Cavarra e da me (su progetto grafico di Serboli & Serboli), che durò dal 2003 (settembre/dicembre) al 2010 (settembre/dicembre). Essa si proponeva, oltre ad
una strategia basata sulla politica del confronto e del dialogo e sull’interazione tra i prodotti culturali e l’ambiente in cui essi si concretizzavano, una specifica attenzione rivolta a Messina, che offrisse ai suoi cittadini la possibilità di tradurre in presenza attiva e dinamica l’occasione di dialogo. Non era la lotta armata di Pagnocco per una libertà tutta da conquistare, ma una battaglia tutta culturale per una libertà da mantenere in un contesto mutato, certo, ma bisognoso di un impegno costante.
Non c’è però soltanto da parlare di storia riguardo a questo nomignolo, ma anche da tener presente le parlate popolari.
Giuseppe Cavarra notava, infatti, che il termine dialettale “pagnoccu” assume, secondo i luoghi della Sicilia, diversi significati: nel Palermitano esso indica la trottola che, piuttosto malandata, nel gioco si espone facilmente ai colpi di punta dell'avversario; nel Siracu­sano si registra il termine "pagnuccuni", che equivale a “mangione”; nel Ragusano designa persona piuttosto in carne e dai riflessi alquanto lenti; sulla riviera ionica messinese è usato per designare persona corpulenta, lenta a capire; a Nizza di Sicilia e a Furci Siculo, il termine "pagnoccu" è usato come soprannome; nella parlata messi­nese, infine, il significato corrente del termine è "sempliciotto", "stupido", "sciocco".
Fu proprio dal significato che al termine attribuiscono i messinesi che facemmo derivare, sulla rivista sopra menzionata, la "pagnoccata", ad indicare l'agire senza troppo discernimento, senza giudizio. Non mancammo allora, di tanto in tanto, di darne qualche esempio, avvertendo subito i nostri lettori che avremmo diviso le pagnoccate in interna­zionali (esempio George Bush e Tony Blair, con la loro sicura ricerca di armi letali, poi mai trovate, in Iraq); nazionali (Silvio Berlusconi e il suo stupefacente tentativo di baciare la mano alla sposa mussulmana del figlio del suo collega turco); regionali (l’intervento del deputato regionale Nino Beninati, che, dopo aver chiesto impe­tuosamente di aprire un dibattito riguardo al famigerato ponte sullo stretto, si è poi ammutolito di fronte ad eventi che di lui non calcolavano nemmeno l'esistenza); e municipali.
A quest’ultimo proposito, ci occupammo, fra gli altri, anche dell’allora neo-sindaco Peppino Buzzanca, che, invece di denunziare progettisti o realizzatori della tramvia, già inutilizzabile dopo un temporale, proponeva di smantellare un'opera che, oltre a cinque anni d'inferno per i cittadini, era costata 140 miliardi di vecchie lire; e anche del neo-assessore alla viabilità Bartolotta il quale, forse inconsapevole dei problemi cittadini provenendo dalla provincia, non credeva che far pagare il biglietto sui mezzi pubblici ai messinesi "furbi" potesse consentire di coprire i costi di gestione del servizio (ma un po' aiutava, o no?).
Ma la pagnoccata cittadina che meglio ricordiamo di aver descritto fu quella dell'avvocato Giuseppe Trischitta, che alle elezioni comunali del tempo, dopo aver fatico­samente recuperato, controllando una sezione dopo l'altra, quelle preferenze che in un primo tempo sembravano non averlo premiato, era riuscito finalmente a raggiun­gere la meta agognata di consigliere. Senonché, senza aver nemmeno il tempo di assaporare il raggiungimento di quest'obiettivo così ambito a Messina (città ancor oggi ai primi posti in Italia per numero di candidati alle elezioni in rapporto alla popo­lazione, evidentemente per via di un diffuso spirito di servizio nei confronti della cittadinanza), il nostro avvocato neo-consi­gliere aveva visto pioversi addosso la tegola del noto processo Buzzanca, che, se di esito infausto, con conseguente deca­denza del sindaco, avrebbe comportato l'annullamento della sua ascesa al Comune. Ecco allora spiegato quel suo sentito intervento, degno dell'oratoria cice­roniana, nel dibattito processuale sul caso Buzzanca. Riportammo allora testualmente dalla "Gazzetta del Sud" del 19 luglio 2003: "Signori giudici, ho impiegato 24 anni per diventare consigliere comunale, non posso decadere ora". E così che l'aula severa di un tribunale può tramutarsi nel palcosce­nico di una farsa, con un pubblico sordo al sentimento che sorride ironico sotto i baffi invece di plaudire, come avrebbe dovuto, allo sfogo sincero di chi non se la sente proprio di ritornare tra la folla anonima dei comuni cittadini, oltretutto per una vicenda dì cui non è responsabile. Ma c'è una giustizia al mondo. La sua rivìncita Trischitta se la prese quando i magistrati (che, non lo escludiamo, furono fortemente influen­zati dal suo patetico intervento) sentenziarono in modo favorevole al sindaco, conferendo­ così al nostro avvocato (sia pure di sponda) la certezza di poter degnamente rappresentare in Consiglio ì suoi elettori. Ma ci fu di più. La sua soddisfazione raggiunse il culmine quando i soccombenti in giudizio furono condannati anche a risarcire le spese processuali non solo a Buzzanca, ma anche al magnifico mancato principe del foro, che subito candidamente ammise che se ne sarebbe giovato per pagare il costo della propria campagna elettorale.
Come si sa, le spese, in effetti, allora come oggi, sono tante e c'è chi osa insinuare (ma noi non ci crediamo!) che esse possano talvolta financo incidere su un comportamento politico dell'eletto che poco tiene conto delle esigenze del cittadino. Non era il caso, natu­ralmente, del nostro avvocato Trischitta, al quale porgemmo allora i nostri auguri, invitandolo a non pensare troppo né al secondo né al terzo grado di giudizio che attendeva il suo sindaco: altrimenti, gli si sarebbe potuta guastare la digestione!
Purtroppo, oggi un tale protagonista dei nostri giorni messinesi non fa più parte del consiglio comunale, dopo avere tentato ultimamente, rimediando una solenne bocciatura, di diventare sindaco.
E il consiglio comunale è assai meno allegro per la mancanza delle sue “pagnoccate”!

Felice Irrera




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