Quella inconfondibile voce nel panorama letterario della Città dello Stretto
Conobbi
per la prima volta la poesia di Marisa Pelle leggendo le trentadue
liriche di Fiore di
cactus (1987), che
recava in copertina un’acquaforte di Togo. Mi colpirono allora le
parole iniziali che le introducevano:
“Anche
nel deserto può nascere un fiore. Nessuno è così povero da non
potere generare la vita, non quella biologica, ma quella interiore. È
lì che vivi la tua libertà, la sete di cieli e spazi infiniti, la
tua ascesa a vette sublimi, immacolate, eterne, dove il candore ti
acceca per farti vedere quel che occhio umano non vede, l’Eterno,
quel che rimane della tua vita, sospesa nel buio di grigie giornate
in una nera, atroce malinconia. È lì che il tuo pensiero vince la
monotonia del quotidiano con i suoi slanci arditi, con l’ansia di
conoscere, di dare vita al nuovo. Che ricchezza la vita!”
Lessi,
poi, con piacere quelle liriche, notando in esse una stretta
rispondenza con quelle parole introduttive: pur piene di una
malinconica dolcezza, già allora sembravano in grado di afferrare
quell’etereo e irreale che la natura ci offre, se siamo capaci di
coglierlo, nei suoi molteplici aspetti prima di ritornare al prosaico
e al quotidiano, che non ci permettono se non di sfiorare solo la
vita:
Ti
raggiunge/ poi scivola via/ e tu la vedi/ spumeggiare,/ frangersi/ e
poi di nuovo ritornare,/ ma ti lasci/ appena sfiorare./ E così,/
lentamente, /ti passa accanto/ la vita.
Ma
anche scorsi in quei versi la religione della famiglia, la fede e la
speranza dell’Eterno, l’anelito, appena accennato, ad una grecità
lontana eppur resistente al tempo, la lotta contro un’indifferenza
e una meschinità che uccidono la vita per proseguire, nonostante i
numerosi orrori della storia, il proprio cammino, alla ricerca di
“attimi intensi”, in mezzo a tanti silenzi.
Non
recensii allora quella silloge che molto mi attirò perché, non
essendo ancora giornalista, non disponevo degli spazi necessari ad
esprimere il mio apprezzamento per una sensibilità così lieve e
profonda. Ma dopo di allora, seguii lo svolgersi del suo iter
poetico, sul quale
potei poi esprimere più volte, sulle pagine di un settimanale libero
come “Centonove”, il mio sentire, constatandone via via, pur
nella varietà dei temi, l’unitarietà di fondo, trovando
manifestata, in quel canto elegiaco limpido e chiaro, una sensibilità
poco comune e individuando, già allora, alcuni di quelli che
avrebbero costituito, nel seguito della sua avventura, i
motivi-chiave della sua poetica: la vita, il tempo, la luce, il
silenzio.
Ecco
che, esaminando insieme le due successive sillogi, “Scagliosi
silenzi” (1991)
e “Fatamorgana” (1996),
non potei che cogliere subito un
chiaro legame di
continuità
con Fiore
di cactus.
Come
già al suo esordio letterario, le quarantadue liriche di “Scagliosi
silenzi” e le trentanove di “Fatamorgana” evidenziavano,
infatti, un attento e partecipe scavo nella propria anima
dell’autrice, la quale restituiva le sue riflessioni con l’utilizzo
di un registro elevato che ne poneva in risalto la cura e la
padronanza dei mezzi espressivi, nelle parole e nei ritmi. Quanto
alla sua cifra stilistica, quasi tutte le liriche si fondavano ora
su un contrasto di immagini e sentimenti.
Così,
antico e nuovo, certezze e parvenze, luce e tenebre, amore e dolore,
vita e morte, voci e silenzi si fronteggiavano in “Scagliosi
silenzi”, spesso nel quadro di paesaggi marini evocati nei loro
vari aspetti ad incorniciare emozioni ora tenui e dolci, ora
malinconici e tristi, mentre alle certezze sperate si opponevano
sogni, parvenze ed ombre. Ed efficace appariva questa scrittura,
attenta a cogliere con essenzialità efficaci analogie:
“Diseguale/
primeva/ a ciascuno/ s’arrocca/ la sua pena”.
Non
diversa sensibilità e analogo stile mostravano le
altrettanto brevi liriche di “Fatamorgana”, che nel titolo
adombrava una sorta di collegamento ideale tra le origini calabresi
dell’autrice e la sua residenza professionale d’insegnante a
Messina. Anche qui vita e tempo, luce e silenzio, desiderio appena
accennato di volo, esemplificato nell’immagine ripetuta del
gabbiano, emergevano come motivi-chiave della raccolta, ma le singole
poesie facevano leva, poi, quasi sempre, sul motivo della
contrapposizione. Ed ecco un’alba “primordiale, edenica irreale”
opposta a "lividi pensieri"; mentre l’immagine "ridente"
di Scilla si opponeva ad una Cariddi "vorticosa di sofferenze".
Anche allora, più di una volta, la poesia scattava originale:
"Nel
cavo dei miei pensieri/ ti rivedo cinciallegra di ieri/ attingere in
piano e in salita/ a piene mani la vita./ Ora che il piano è solo un
miraggio/ a mani vuote la vai rasentando”.
Oppure
l'ispirazione si distendeva in una mestizia rassegnata:
"Sull'eco dei tuoi pensieri/ remote si fanno le angustie di ieri/ mentre il canto delle sirene/ torna a lambire le antiche pene”.
Canto
elegiaco, dunque, limpido e chiaro “Fatamorgana”, ma con la
stessa sospesa inquietudine del giorno in cui le due sponde dello
Stretto sembrano unirsi per magia.
Era,
perciò, ribadita ed evidente l’ispirazione unitaria di Marisa
Pelle, che assumeva già il ruolo di una voce poetica appartata, ma
autentica, della nostra città.
La
riprova venne dalla successiva raccolta, Sulla
cifra del tempo (Messina
2004), che mi parve rafforzare, sia pure con spunti sempre diversi,
la sua malinconica visione, segnata dall’inesorabile trascorrere
del tempo:
“Hanno
l’acre sapore del vento/ questi giorni strappati al silenzio/ fiori
recisi sulla cifra del tempo”
Una
poesia priva di slanci appassionati, ma fondata sempre su toni lievi
che spesso prendevano spunto dall’osservazione di semplici aspetti
della natura. In quella pacata rassegnazione che fa divina la vita,
la speranza rinasceva, allora, con la preghiera, capace di
trasformare la memoria in canto. Se un appunto mi sentivo allora di
fare ad una espressione lirica che manteneva, ripeto,
nell’ispirazione un’unità di fondo, era quello di entrare
raramente nella storia, quasi ad allontanare da sé i problemi dei
“piccoli” uomini rifugiandosi nel contatto con la natura da cui
trarre motivo di sommesso canto.
Ma
ecco, nel 2009 Sul
crinale del giorno. Il
motivo del “tempo”, sempre presente nelle precedenti raccolte
liriche, si esprimeva ora più spesso tramite l’eleganza di
immagini classiche che, senza peccare di erudizione, scaturivano
dalle pieghe dell’anima, mentre la “magia delle parole” rendeva
meno amara la morsa di colui che inesorabile fugge. Se i toni
elegiaci persistevano, il registro tendeva ad elevarsi ancora negli
eleganti endecasillabi, novenari e settenari grazie ad un’accurata
scelta del lessico in cui prevaleva l’area semantica del “mare”
e del “cielo” e, mentre si definiva la vita una
“partitura
musicale/ che una volta sola è dato eseguire”,
musicali,
appunto, si mostravano i versi delle liriche, che, in generale,
tendevano a sottolineare il significato dell’esistenza,
perennemente sospesa tra dolore e gioia.
Liriche
levigate ed eleganti ritrovai pure in Dai
gradini del Persephoneion
(2010): ora la sensibilità poetica tendeva a farsi cosmica, mentre
si accentuava il consueto topos
del “tempo”. Le
parole, non comuni e quindi distrutte dall’abuso giornaliero, erano
ora come distillate dal controllato calore dell’ispirazione: contro
la Morte che incombe rimaneva
“la
parola che disvela”,
restavano
“le
ragioni della Speranza”,
gli
scampoli
“di
una bellezza arcana”,
quelli
offerti dalla Natura e l’altra dei miti antichi, che la memoria
faceva riemergere. Il verso, che sembrava alla poetessa soltanto un
“alfabeto
dell’anima”,
s’immergeva
in quel mito che precedeva la storia.
E
giungiamo alla settima silloge, Come
fuoco nell’arca. Poesie alla madre
(2012), liriche questa volta permeate dal dolore di una perdita che
sembra all’autrice totalizzante, rendendo “arido” il presente.
Ella strappa allora all’oblio frammenti e trame del passato
affondati dalla quotidianità e assegna alla poesia il compito di
sacralizzare un passato che ritorna più che mai intenso nel momento
del trapasso della persona cara:
Gocciole
di cera che il tempo/ ha rappreso sulla pelle/ le nostre ore sommesse
silenziose/ Luce affilata che deflagra/ da una candela spenta/ tersa
alabastrina/ luce che s’interna nel tessuto/ delle cose.
Pur
non mancando versi di magica bellezza, risalenti alla classicità o a
tempi più moderni, essi si susseguivano distillati dal dolore, e
l’isolamento, al loro interno, di singole parole le caricava di
significato, finendo col costituire la cifra caratterizzante della
silloge.
Una raccolta successiva, Tavolozza
(2014), reca un sottotitolo mutuato da Orazio (Ut
pictura poesis):
adesso nelle liriche il punto di partenza è un quadro o una
scultura. Mentre continua la meditazione dell’autrice
sull’esistenza e sul tempo
“che
brucia la legna degli anni”,
trova
posto anche la storia, vista in tante sue tragedie, mentre un lessico
classicamente scelto ci presenta personaggi ed opere dell’antichità,
permettendo di cogliere nella labilità della vita
“l’attimo
graffito d’eterno”.
Si
crea, insomma, una misteriosa corrispondenza tra l’immagine
artistica e l’ispirazione poetica e si coglie come l’ispirazione
che ha prodotto le opere di tanti artisti possa trovare piena
corrispondenza nella sensibilità poetica, che crea un vero e proprio
“affresco di parole”. Ne è esempio l’ultima splendida lirica,
ispirata a “La notte stellata” di Van Gogh, dove la varietà del
verso produce una musicalità difforme, ma singolarmente composta,
capace di rendere il contrasto tra il paesaggio terrestre e il cielo:
“Sotto
il profilo ondulato dei colli/ a valle dorme il paese reale/ a tratti
brevi lineari/ le case le finestre il campanile/ Inquieto di contro
il cielo/ urto drammatico di forze/ in movimento/ a pennellate curve
ondose”.
La
decima silloge di Marisa Pelle, Schizzi
di memoria (2016),
divisa in tre sezioni (“Tra partenza e approdo”, “Sul crinale
della storia”, “Fruscio di colori”) ci presenta, in sintesi,
tre caratteristiche della poesia dell’autrice, che già abbiamo in
precedenza incontrato.
Nella
prima, motivo sempre vivo in lei, è ben rappresentato il suo legame
profondo con la poesia
“fiore
che si spande/ da arcane radici/ dentro la rugosa pietra/ da una
crepa sul muro/ da una tegola sconnessa/ a spezzare il silenzio/ Si
fa breccia nel frantume /d’un calcinato rudere /a scerpare
l’essenza/ Negli alfabeti del mondo”.
Nella
seconda, la storia, conquistata, come si è visto, gradatamente, si
rende presente nelle liriche proprio attraverso la pietà della
poesia stessa, suscitando, grazie al pathos
che le anima, lo
sdegno del lettore, il quale, di fronte alla frequenza di tanti atti
di malvagità, ha l’obbligo di non dimenticare.
Nell’ultima
sezione, ecco ricomparire il legame tra poesia e arte: le tinte usate
da tanti artisti nelle loro opere sono una tavolozza che l’autrice
riesce a far rivivere unendo in magica simbiosi e fecondo abbraccio
la parola poetica all’opera d’arte dei quadri di Cézanne, Monet,
Chagall, Turner, Kandinsky, Kokoscha, El Greco e di tanti altri, che
parlano al lettore di molte altre vite capaci di inviare messaggi
universali al mondo.
E
giungiamo alla produzione più recente, la raccolta L’onda
lunga della parola (2018),
comprensiva di sessanta liriche, alcune delle quali dedicate sempre
agli affetti familiari, mentre altre recano in esergo dediche
personalizzate e spesso prendono spunto, come ormai consueto, da
acquerelli, pitture su tela o su legno, tempere, collages
e sculture di vari artisti o da opere di poeti (dal poeta e critico
d’arte Yves Bonnefoy, alla scrittrice marocchina Fatima Mernissi,
da
Derek Walcott, poeta e scrittore originario delle Antille che fu
premio Nobel a Mark Strand, poeta, saggista e traduttore americano
nato in Canada, dal poeta friulano Pierluigi Cappello al grande poeta
e scrittore argentino Jorge Luis Borges, al poeta, saggista e
drammaturgo russo Iosif Brodskij, anche lui Nobel). Ma neppure mancano poesie che rievocano tragici fatti storici (come l'impiccagione da parte dei nazisti dei membri della Rosa Bianca o i tanti desaparecidos
del mondo), talvolta anche attraverso il riferimento a singole
persone: ci riferiamo, in particolare, al poeta e saggista russo Osip
Mandel'štam, vittima delle purghe staliniane; alla giornalista
maltese Daphne Caruana Galizia, rimasta uccisa in un attentato.
Ciò che subito si nota e che, del resto, accomuna, in larga misura, questa alle precedenti sillogi è l’estrema cura nella scelta dei vocaboli, circa i due terzi dei quali sono diversi e alcuni dei quali sono settoriali, risultando talora di non facile comprensione al lettore medio.
Abbondano nel testo paragoni e similitudini, come pure, singoli termini: “tempo”, vocabolo che abbiamo visto sempre molto presente in tutte le sillogi, assieme a “luce”, ma anche a “parola”. È una “vita”, quella che scorre nei versi, generata da un’osservazione attenta della natura con le sue albe e le sue sere, le nuvole, il vento e la pioggia, il trascorrere delle stagioni, i paesaggi con i loro fiumi, le colline, gli alberi con i loro rami e foglie, i fiori; e poi le onde del mare e, ancora, il “silenzio”. Di tanto in tanto, il “ricordo” si accende, la “memoria” ritorna: “suoni” e “voci” del presente ed echi del passato si fondono, mentre la vista è attratta dalle creazioni degli artisti e, oltre le “ombre” e i “bagliori” trascorsi, emergono chiari i colori, dal blu all’azzurro, dal giallo all’arancio: è allora che la parola forma un tutt’uno con la creazione artistica e si rimane attoniti di fronte a questa simbiosi, di cui scegliamo come sintesi alcuni versi dedicati all’olio di Paul Klee Ad Parnassum, che bene esprimono il pensiero dell’artista riportato in esergo, secondo il quale “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”:
Ciò che subito si nota e che, del resto, accomuna, in larga misura, questa alle precedenti sillogi è l’estrema cura nella scelta dei vocaboli, circa i due terzi dei quali sono diversi e alcuni dei quali sono settoriali, risultando talora di non facile comprensione al lettore medio.
Abbondano nel testo paragoni e similitudini, come pure, singoli termini: “tempo”, vocabolo che abbiamo visto sempre molto presente in tutte le sillogi, assieme a “luce”, ma anche a “parola”. È una “vita”, quella che scorre nei versi, generata da un’osservazione attenta della natura con le sue albe e le sue sere, le nuvole, il vento e la pioggia, il trascorrere delle stagioni, i paesaggi con i loro fiumi, le colline, gli alberi con i loro rami e foglie, i fiori; e poi le onde del mare e, ancora, il “silenzio”. Di tanto in tanto, il “ricordo” si accende, la “memoria” ritorna: “suoni” e “voci” del presente ed echi del passato si fondono, mentre la vista è attratta dalle creazioni degli artisti e, oltre le “ombre” e i “bagliori” trascorsi, emergono chiari i colori, dal blu all’azzurro, dal giallo all’arancio: è allora che la parola forma un tutt’uno con la creazione artistica e si rimane attoniti di fronte a questa simbiosi, di cui scegliamo come sintesi alcuni versi dedicati all’olio di Paul Klee Ad Parnassum, che bene esprimono il pensiero dell’artista riportato in esergo, secondo il quale “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”:
A
brani a tratti erratico s’aduna/ il tempo/ Sulla pagina bianca a
passi radi/ in un proustiano silenzio/ a centellinare profili/
dettagli sotto traccia/ Alla periferia dell’essere/ manifesto
diviene l’invisibile/ Pronuncia sempre nuova/ senza eco
fragilissima su carta/ la parola
Auguriamo
a Marisa Pelle di proseguire ancora il suo salvifico viaggio poetico
per controbattere un mondo, quello odierno, al quale tanto sarebbe
necessario guardare al di là delle apparenze e dei prosaici momenti,
con pochi lampi, della vita di ogni giorno.
Felice
Irrera
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