lunedì 23 settembre 2019

CRONACHE DI FINE OTTOCENTO. Placido Messina detto ‘u Ghiugghiu

PLACIDO MESSINA DETTO ‘U GHIUGGHIU

Alla fine dell’Ottocento, chi a Messina avesse voluto gustare i piatti della tradizione locale, come il soffritto, la ghiotta di pesce stocco, le braciole di pesce spada o lo stufato di piedi, si sarebbe dovuto recare alla caratteristica taverna di Placido Messina, detto ‘u Ghiugghiu, in una delle traverse del Grande Ospedale, di fronte alla fontana della Provvidenza. Ci trovava tutti quei piatti e molti altri, ma soprattutto ci trovava le battute di spirito del taverniere e le parolacce con cui le condiva. In quella bettola a chilometri zero ante litteram, assieme ai piatti locali e a «un bicchier di vino puro di Barcellona, del Faro e di Bordonaro», ci trovava le tovaglie rustiche che profumavano di bucato, ma che erano abbellite dalle macchie di vino dei precedenti servizi, che le lavature non erano riuscite a togliere.
E vi trovava un ambiente buono per tutte le occasioni, un vero locale democratico e trasversale: «Tutti i signori e borghesi, operai e popolani, facchini e carrettieri, donnine del demi monde e della plebe, tutti han passato in quella taverna rusticana delle ore piacevoli e di leccornia golosa».
Disegno di Arianna Aliffi
Ma era destino che quell’angolo di paradiso in terra avesse i giorni contati, a causa della tragica sorte che sarebbe spettata a Placido Messina la sera del 21 settembre 1890, per mano di un giovane carrettiere senza precedenti penali, e che non aveva alcun motivo di rancore nei confronti del Ghiugghiu. Quella sera Stellario Mandraffino, ventiquattrenne, entrava nella taverna di Messina in compagnia di due donne dai facili costumi, Giovanna Sottile e Rosa Celona, che erano anche madre e figlia. I tre mangiarono e bevvero allegramente e rumorosamente, e alla fine della cena avrebbero voluto concludere la serata con un ballo, ma ‘u Ghiugghiu non glielo permise, spiegando che nell’appartamento adiacente stava una donna malata, e non avrebbe voluto disturbarla ulteriormente. Le due donne reagirono malamente al diniego di Messina, e lo aggredirono prima con le parole, poi con i fatti, procurandogli però solo una leggera ferita al collo. La rissa fu presto sedata, e la cosa sembrava finita lì.
Invece, a conclusione della serata, mentre il taverniere si accingeva a chiudere il locale, dal buio saltava fuori Mandraffino che lo aggrediva alle spalle e lo colpiva con un coltello a serramanico, con una ferita al fianco sinistro che lo avrebbe portato alla morte il giorno seguente.
Nel successivo mese di agosto, tutto era pronto per l’inizio del processo: l’accusa era di omicidio volontario, avendo il tribunale ritenuto «che il Mandraffino inferse quei colpi di arme allo scopo di esercitare solamente un atto di mafia».
Si presentò alla corte l’imputato: un giovanotto alto e magro, con dei baffetti biondi e vestito in maniera discreta. Provò a giustificare la sua azione, dicendo di essere stato provocato da Placido Messina, che lo aveva preso a schiaffi, bastonate e colpi di sedia, ma la sua dichiarazione fu prontamente smentita da una serie di testimoni, che confermarono le tesi dell’accusa. Né migliorarono la sua posizione le dichiarazioni delle due donne che lo accompagnavano, «che disgustarono tutti col loro cinismo ributtante».
Si presentarono anche due testimoni a favore del Mandraffino, pronti a dichiarare di aver visto ‘u Ghiugghiu schiaffeggiare l’imputato, ma, smascherata la falsità delle loro parole, furono arrestati seduta stante come testimoni reticenti e falsi. Giuseppe Merlino e Letterio Cutroneo – così si chiamavano i due falsi testimoni – trascorsa qualche ora in carcere, chiesero di essere risentiti con urgenza, ritrattarono la loro precedente dichiarazione, aggiunsero di essere stati istigati dalla madre di Mandraffino a fare quella deposizione, riottennendo la libertà.
Si susseguirono le requisitorie dell’accusa e della difesa. Il procuratore, cavalier Castagna, si concentrò sul carattere mite e gioviale della vittima, cui contrappose la ferocia dell’azione di Mandraffino. L’avvocato Natale Scaglione, difensore, provò a puntare sulla volontà di ferire, piuttosto che di uccidere, e fece leva sul buon passato del Mandraffino: «È un disgraziato che merita riguardi per la sua condotta buona e gli ottimi precedenti». Infine l’avvocato Francesco Faranda, personaggio di spicco del Foro messinese in quegli anni, e presente al processo in qualità di avvocato di parte civile, definì l’imputato «vittima di quell’ambiente viziato che lo circondava», e fu il primo a chiedere che nei suoi confronti fosse applicato il beneficio delle attenuanti.
Il verdetto non si fece attendere a lungo. La giuria riconobbe all’imputato le circostanze attenuanti, con una maggioranza di 7 a 5; a fronte della richiesta di venti anni di reclusione, avanzata dal procuratore, la Corte condannava Stellario Mandraffino alla pena di sedici anni e otto mesi di reclusione, più uno di sorveglianza speciale una volta scontata la pena.

Gerardo Rizzo

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